1996 giugno 8 Giornalisti liberi, con onore

1996 giugno 8 – Ultimo articolo di Giorgio Lago come direttore del Gazzettino

“Giornalisti liberi, con onore”

Dopo dodici anni ho deciso di lasciare la direzione del Gazzettino. Scopro che cominciare è facile,
difficile smettere. Del tempo mi manca l’idea confuciana dello scorrere di autunni e primavere. Condenso
questi dodici anni in un grumo di lavoro, dentro il quale mai mi sono sentito solo. Abbiamo lavorato
insieme, in tanti, perché il giornale è tante cose, una testata, una fabbrica, un’azienda, persone soprattutto.
E, anche, un centralino di opinione pubblica. Confesso di non essere più quello di dodici anni fa. Io non
sono più io, sono molto cambiato, mi hanno cambiato i lettori di un giornale popolare che il cadorino
Talamini piantò a Venezia forse cercando la sintesi di tutte le radici possibili, d’acqua e di roccia. Ce
l’abbiamo messa proprio tutta nel tentativo di ascoltare, di capire, di servire. I cronisti sono stati i nostri
primi sensori, spesso ci hanno aiutato ad anticipare il tuono della protesta. «Nel mercato delle idee la
critica è di casa», ha riconosciuto il cardinale Martini. L’abbiamo esercitata provando faticosamente a
costruire qualcosa, cominciando dalla cultura del controllo. A volte, dinnanzi al saccheggio di denaro
pubblico, denaro sudato dei contribuenti, mi ha preso la disperata tentazione dello scrittore Brancati: «Mi
riconosco violenti diritti, e mi pento di non averli mai usati». Da liberale, ho naturalmente finito con il
negare voce al peggio che abita in noi e che, soprattutto nelle lacerazioni della storia, insidia il primato
della ragione. Ho amato David Maria Turoldo che, su queste pagine, ha scolpito il Male nelle sembianze
del dio del consumo e della roba, dell’odio etnico e della dissipazione ambientale. In un tempo di
corruzione delle parole, il prete friulano ha cantato la volontà di edificare mattone su mattone una società
più giusta, che proprio perché ricca non chiuda gli occhi su povertà vecchie e nuove che tutt’ora danno
scandalo tra noi. Oggi si dice che bisogna fare «sistema», «rete»: se posso integrare, segnalo a futura
memoria quel mattone civile di Turoldo, un qualche ideale non meramente economico. Una pausa per
darci un po’ di senso. Con il nostro giornale, non abbiamo inventato il Nordest; ci abbiamo lavorato sopra
a tempo pieno e in tempi non sospetti, questo sì. Siamo stati testimoni di un recupero innanzitutto
culturale: né narcisismo (quanto siamo bravi) né subalternità (quanto siamo fessi). Né mone né eroi. Se
come direttore ho avuto un ruolo politico, lo è stato di facchino del Nordest, intento a trasportarne i
materiali, identità, campanili, movimenti, febbre di autonomia, capitalismo sociale di mercato, l’ora et
labora di chi ha imparato dalla fatica contadina che lavoro è anche ancestrale paura di perderlo. Su tutto
il federalismo che parte dal basso, dai sindaci di paese e di città: metà popolazione abita in poche decine
di grandi comuni, l’altra metà in uno sterminato territorio di piccoli municipi. L’Italia vive una fase in
cui occorre «attendere l’inaspettato», ciò che dovrà esistere anche se ancora non esiste. Un’impresa
titanica, ribaltare la forma dello Stato dalle fondamenta del potere per salvarne il senso e l’efficienza.
Ma, come Indro Montanelli, sono nato italiano e voglio morire italiano, immaginando per il Nordest un
ruolo di avanguardia riformista e solidale, luogo di doveri prima che di diritti. Lotta dura, senza paura,
per tenerci insieme a dispetto di ciò che divide. Alla pari, senza egemonie, né Roma né Milano e
nemmeno Venezia: alla pari, come insegna il patto tra eguali, il federalismo appunto. Sapete che cosa
scriveva Luigi Einaudi nei … primi anni venti? Che per riformare la burocrazia italiana bisogna avere
«fede»! Una fede totale nell’idea che i guasti derivino dalla esagerata presenza dello Stato nella vita dei
cittadini. Nulla sarà dunque facile, ma tutto sarà possibile a patto di chiarirci almeno due idee. Il
secessionismo non è la variante del federalismo, bensì la sua tomba. La resistenza al cambiamento viene
più dalla Macchina del centralismo che dal ceto politico, quest’ultimo preso spesso in ostaggio. Bene.
Ho sempre scritto corto, oggi mi accorgo di andare fuori misura: meglio provare a chiudere lasciando i
ragionamenti sul domani al nuovo Direttore, al quale consegno un augurio senza riserve e il benvenuto.

In questi dodici anni abbiamo lavorato in libertà, contando su una Proprietà esemplare arche nei momenti
di divergenza. Nonostante errori, omissioni e cadute di cui sono responsabile, i nostri lettori hanno capito
fino in fondo lo sforzo di indipendenza. Forse per questo, nel bel mezzo di una crisi epocale della lettura,
abbiamo difeso con le unghie e con i denti le nostre 140 mila copie e i nostri quasi 800 mila lettori.
Abbiamo fatto cronaca della vita, non storia. Con intransigenza, non sempre apprezzata, ci siamo ispirati
alla lezione di Mani Pulite. Detesto la retorica e non voglio fare la lacrima, ma ho ricevuto in questi anni
molto di più di quanto abbia dato. Chiedo ai lettori di credermi sulla parola. Pochi giorni fa mio padre ha
lasciato a noi figli qualche riga di testamento spirituale, lui che era un gran vecchio, dell’altro secolo, e
che ci raccontava del Grappa, della Bainsizza e di Caporetto come si narra una favola antica. Mi tengo
addosso una sua riga: «Non vi lascio sostanze, ma un patrimonio di onore». Enzo Biagi mi dice che
questa parola, «onore», è scomparsa dal vocabolario. Però sento che resta la parola giusta: in questi dodici
anni abbiamo provato a fare un giornale di giornalisti liberi, con onore.