1996 febbraio 11 I sette vizi capitali dell’Italia

1996 febbraio 11 – I sette vizi capitali dell’Italia

Guardiamoci negli occhi. Qualsiasi ceto politico, qualsiasi governo, avrà per alcuni anni lo stesso ordine
del giorno: i sette vizi capitali dell’Italia del Duemila. 1) Nella scuola. Un Paese debole nella formazione,
non sarà mai forte. 2) Nella sicurezza. Se pensiamo di guarire l’Italia dagli squilibri Nord Sud lasciando
inalterato l’attuale livello di criminalità organizzata, siamo o complici o idioti. 3) Nel lavoro. La
disoccupazione non riguarda soltanto noi, ma non sta scritto da nessuna parte che la terapia debba
giungere dall’Europa o da nessuno: per primi, alla nostra disoccupazione, dobbiamo pensare noi. 4) Nel
debito pubblico. Continua a crescere nonostante le cortine fumogene, appesantendo il futuro di intere
generazioni. Richiede sacrifici, ma nessuno è più disposto a farli senza equità e senso. 5) Nel fisco.
L’evasione innalza le aliquote, le aliquote incoraggiano l’evasione, l’una e le altre bruciano investimenti,
risparmi, energie, favorendo la religione del BOT. 6) Nella burocrazia. Lo storico freno che corrompe
l’amministrazione pubblica. 7) Nell’ambiente. Non siamo nemmeno lontanamente degni del paradiso
consegnatoci dalla Provvidenza né all’altezza dell’immenso patrimonio culturale lasciatoci in eredità sul
territorio: se solo ci rendessimo conto di questa miniera a cielo aperto, potremmo sommare ambiente,
cultura e turismo per un piano Marshall casalingo capace di far impennare il PIL (prodotto interno lordo).
Altro che Cassa del Mezzogiorno e buchi neri del genere! Siamo seri. I problemi veri sono questi. Se si
continua a ricorrere ai tecnici, dipende dal fatto che i politici da anni, decenni, non si confrontano e non
si scontrano più sulle ricette concrete. O gestiscono il potere, o affogano nella transizione. Nel vuoto
politico, i Ciampi, i Dini, i Maccanico di turno possono ritoccare qua e là i conti finanziari
dell’emergenza. Stop, il resto ce lo trasciniamo come una palla al piede in attesa che sinistra e destra
dicano agli italiani come vogliono mitigare o aggredire i sette vizi capitali di cui sopra. Oggi sbattiamo
il muso su un’altra contraddizione, che ingarbuglia l’ordinaria amministrazione dei tecnici con la spinta
riformista dell’opinione pubblica. Il patto D’Alema-Berlusconi non sarebbe di per sé un imbroglio, un
pasticciaccio, un inciucio alla romana: in fondo, la stessa Costituzione richiede la maggioranza dei due
terzi del Parlamento per l’autorevisione. Richiede cioè un patto che supera gli schemi maggioranza –
opposizione proprio perché si tratta di regole costituzionali a vantaggio di tutti, non di una sola parte.
Non ha dunque senso condannare come pateracchio il tentativo riformista di forze inevitabilmente
destinate a ritornare il giorno dopo politicamente contrapposte. Ciò che preoccupa, anzi scandalizza, è il
modo e la sostanza. Il modo. Un infinito bla-bla-bla, prima troppo a porte chiuse, poi sbracato in Tv.
Affidato ai puntigli, alle furbizia, ai calcoletti, a tal punto da ingenerare nell’opinione pubblica il sospetto
che non di afflato riformista si tratti, ma di reciproco agguato elettorale. La sostanza. Mette paura, dal
momento che corrono tutti come topi impazziti verso il governo forte quando anche i bambini sanno che
l’Italia ha bisogno piuttosto di poteri forti. Tanti poteri forti, trasparenti, visibili, controllabili dai cittadini,
soprattutto diffusi sul territorio, in una parola poteri federali che – accanto al governo presidenziale –
esaltino per la prima volta nella storia italiana, dal Risorgimento ad oggi, la capacità comunale e regionale
di amministrarsi lasciando allo Stato il residuo del potere, non la sua titolarità. A dire il vero, in queste
ore tutti evocano in qualche modo la parola «federalismo». Ma si ha sempre l’impressione che sia buttata
lì alla fine, proprio perché non se ne può fare a meno, con la funzione di una spolverata di zucchero sul
pandoro del presidenzialismo. Si finge di non sapere (perché non posso immaginare che non sappiano)
che quella federalista è la riforma più innovativa ma anche la più faticosa, e nella quale bisogna proprio
credere e impegnarsi. Non a parole, sulla vernice. È questo impazzimento di fondo che mina ogni patto
(riformista) e ogni transizione (tecnica). Soltanto buone Istituzioni permetteranno di affrontare i sette vizi
capitali con buone possibilità di riuscita. In caso contrario, ne sono profondamente convinto: moriremo
affogati nei nostri sogni di cambiamento.

11 febbraio 1996