1995 settembre 3 Perché è così difficile cambiare

1995 settembre 3 – Perché è così difficile cambiare

L’Istat sa tutto di noi. Che il morbillo è in calo e che i maschi friulani sono i più alti, quanta birra
beviamo e quanti chilometri percorriamo in treno. Il “compendio statistico nazionale” ci fotografa,
dando senso generale al gesto individuale. La statistica è un’arte consolatoria, ci livella nel Grande
Numero.

A me piacerebbe molto sapere quanti italiani vogliono cambiare l’Italia, ma questa cifra non esiste.
E’ un dato segreto perché ambiguo: cambiare come? Quanto?

La risposta non la danno i sondaggi di giornata, e nemmeno il referendum e il voto perché la nostra
continuità ha il vizio di confondere vecchio e nuovo. La continuità è infinitamente più forte del
cambiamento in un Paese che non ama il presente ma lo preferisce al futuro.

Cambiare significa uscire, spostarsi, rompere, faticare, rischiare. Ridiscutere la politica, togliere lo
Stato dalla sua retorica.

Il cambiamento è un metodo di lavoro, non l’avventura della democrazia. Ed è il metodo che ci manca,
sembriamo tanti rivoluzionari legati alle riforme.

A dire il vero, nessun Paese al mondo discute tanto e per tanto tempo di riforme, ma sempre riforme
su misura, ritagliate su un interesse, un potere economico o una parte politica. Riforme ad uso e
consumo, quindi l’una destinata ad elidere l’altra: le riforme all’italiana divorano il riformismo.

Paghiamo la corruzione del termine “cambiamento” lungo i decenni della guerra fredda. Il
moderatismo rappresentava lo scudo contro il cambiamento in peggio del sistema: la sinistra
proponeva di trasformare lo Stato rendendolo ancora più Stato, ancora più intrusivo, ancora più
burocratico. Lo Stato proposto dall’opposizione di sinistra era più conservatore dello stesso Stato
difeso a scatola chiusa dai moderati: come dire che il riformismo nasceva morto.

Non siamo abituati a cambiare, questo l’impaccio di oggi. Dopo la Marcia su Roma e la Resistenza,
la nostra democrazia non è ancora riuscita a inventarsi una via liberale per rifare l’Italia alm riparo
dai traumi della storia.

Come produttori di beni siamo formidabili, come costruttori di bene comune, valiamo poco.