1995 giugno 30 Quel monito di Falcone

1995 giugno 30 – Quel monito di Falcone

Qualcuno si ricorda di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino? Rileggo una pagina del primo.
“Noi del pool antimafia abbiamo vissuto come forzati: svegli all’alba per studiare i nostri dossier
prima di andare in tribunale, ritorno a casa a tarda sera. Nel 1985 io e Paolo Borsellino siamo andati
in “vacanza” in una prigione dell’Asinara, in Sardegna, per stendere il provvedimento conclusivo
dell’istruttoria del maxi-processo. Non rimpiango niente anche se a volte percepisco nei miei colleghi
un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezioni, meno rigore negli
spostamenti. E allora mi sorprendo ad avere paura delle conseguenze di un simile atteggiamento:
normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni
alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno
il loro dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato. Sarebbe insopportabile
risentire nel corso di un interrogatorio l’ironia e l’arroganza mafiosa di una volta!”
Potrei chiudere qui, aggiungere “no comment”, consegnare al lettore – così come stanno – parole
come pietre in mezzo a un nugolo di parole fatte di parole, di arabeschi, di forme e di vapore. Falcone
spiega, meglio di chiunque, come la giustizia possa diventare qualcosa che, in una certa fase storica
e contro un certo volto dell’illegalità, richieda molto di più di un codice, di una toga, di un impegno
di “routine”.
Falcone parla di mafia, ma molti di noi lo sentono come un ammonimento che supera quel confine.
Anche noi, soprattutto oggi, temiamo quel tipo di “normalità”, formalmente ineccepibile, elegante,
giuridicamente sublime, pronta a spaccare il capello del codice in quattro, pozzo di scienza, modello
di distacco dagli affanni del mondo, insomma “normalità” secondo quella denuncia di Giovanni
Falcone.
Quando sento Mancuso, temo che la “normalità” sia già tra noi. A spese di quello Stato di diritto di
cui il ministro, formalmente, si sente l’ultimo e il solo baluardo.