1992 novembre 8 Perchè la nostra crisi politica è cosi speciale

1992 novembre 8 – Perché la nostra crisi politica è così speciale
Nemmeno gli Stati Uniti se la passano poi tanto bene per livello della politica. Una democrazia
vitalissima, in continua evoluzione, che rimuove e promuove senza batter ciglio interi ceti di potere,
non ha saputo risparmiare alla campagna presidenziale gli insulti, le bassezze, il frugare per mesi sotto
le lenzuola dei candidati. Un misto di rotocalco, di spot e di Dallas che lascia di stucco anche gente
scafata come gli italiani. I quali coltivano alcuni miti stranieri per assaporare almeno il gusto di una
possibile lezione. La Camera dei Comuni ad esempio, il Parlamento inglese, che miscela ai nostri occhi
parrucche e lungimiranza, la tradizione e l’istinto a capire i tempi nuovi. Ci si rimane male il doppio
quando un deputato conservatore rivela che il Governo di Sua Maestà, per spingere a votare a favore
dell’Europa, ha posto a più di un parlamentare il seguente dilemma: 10 voti per Maastricht o il nome
della tua amante finisce sui giornali. A parte questa concezione della stampa come pulpito un po’
puritano un po’ spione, sembra quasi che la democrazia più si evolve più si banalizzi. Insomma, il
trionfo universale del pragmatismo come fine del pubblico e avvento del privato in politica. Non siamo
i soli ad avvertire malessere. I francesi si domandano in questi giorni perché siano tanto «angosciati»,
perché uno su tre prenda tranquillanti, e quali siano le colpe dello Stato in questo disagio diffuso. Pare
che il sentimento dominante sia socio-economico: chi non ha già potuto migliorare la sua posizione
sociale, teme che non ce la farà più; chi gode di una buona posizione, ha paura di perderla e in ogni
caso la vede insidiata dal futuro. Analizzando il referendum che recentemente ha detto sì di stretta
misura all’Europa, emerge un dato sorprendente: più che populista, il no è stato un voto dei ceti
professionali. Perché, come spiega il settimanale «Le Nouvel Observateur», il posto di lavoro è
diventato posto d’inquietudine. L’Italia non ha il monopolio dell’infelicità economica, nemmeno di
quella politica. È il Paese, questo sì, che deve cambiare di più, avendo logorato per assenza di ricambio
la macchina dello Stato, la selezione delle classi dirigenti, il principio di responsabilità sociale.
L’inefficienza ha favorito l’egoismo, che in democrazia andrebbe sbattuto in prima pagina con molta
più preoccupazione degli onorevoli a luci rosse o dei presidenti di intatti appetiti sessuali.
L’inquietudine italiana ha semmai un fondamento tutto speciale. Nel senso che deriva dalla lunga,
storica astinenza dai rischi del cambiamento: prima il fascismo che crolla con la guerra; poi la
democrazia bloccata dal comunismo che crolla con il Muro. Non abbiamo mai imparato a scegliere di
volta in volta per libera scelta, senza traumi, senza strappi, senza incubi. La vera distanza dall’Europa
transita qui. Ma si può recuperare, e in fretta.
8 novembre 1992