1991 agosto 11 Era l’accusatore di Cosa Nostra

Testata: GAZZETTINO
Edizione: PG
Pagina: 1
Data: 11/08/1991
Autore: Giorgio Lago
Tipo:
Argomento: OMICIDI, NDRANGHETA – MAFIA CALABRESE
Persone: SCOPELLITI ANTONIO – MAGISTRATO UCCISO
Didascalia:
Descrizione:
Titolo: ERA L’ACCUSATORE DI “COSA NOSTRA” – TRA UN FUNERALE DI STATO E
UNA GRAZIA DI STATO
di Giorgio Lago

Un suo stretto parente, giornalista al Gazzettino, ci ricorda quale fu il primo impulso a spingere
Antonio Scopelliti a fare il magistrato. Ancora ai tempi del liceo, dalle parti di Piale – in Calabria, poco
distante da dove venerdì l’hanno ammazzato – gli avevano messo un legno di traverso alla strada,
facendolo cadere rovinosamente con la sua Vespa rossa. L’unico torto era stato di infrangere le piccole
regole del territorio, andando a trovare una ragazza in un paesino diverso dal suo. Quell’angheria, quel
sopruso, quella violenza gratuita, gli misero in testa assieme ai punti di sutura il desiderio di
promuovere giustizia. Diventando giudice. Antonio Scopelliti protestava per la scarsa protezione
offerta dallo Stato ai pentiti, ma trascurava la propria. Era l’uomo dell’accusa in grandi processi al
crimine organizzato. Contro la presunzione d’innocenza, sosteneva che «i diritti di chi viola la legge
non possono essere più garantiti di chi la rispetta». Contro lo scandalo di tante assoluzioni, si batteva
perché la concordanza degli indizi venisse formalmente riconosciuta quale prova per non premiare «i
furbi e il delitto perfetto». Contro la sottovalutazione del fenomeno mafioso, sosteneva l’unitarietà
della cupola per dare ragione della ramificazione nazionale e internazionale della piovra. Ma adesso,
incredibilmente ci si interroga sui possibili moventi o ci si stupisce che un magistrato così «equilibrato»
sia finito nel mirino della mafia. Come se nessuno sapesse che il crimine teme innanzitutto gli
investigatori razionali, i giudici lucidi, le forze che alle emozioni dell’emergenza antepongono la
cultura della legalità e la conoscenza mirata dell’antiStato. È difficile spiegare perché l’uccisione di
un magistrato a noi provochi il massimo dello sgomento e della frustrazione. Forse perché giudicare è
l’esercizio più vicino all’utopia e rappresenta l’ideale di una comunità. Se la sospensione del giudizio
(«non giudicare e non sarai giudicato») sublima l’amore verso il prossimo, lo Stato non può esimersi
dal giudicare gli uomini con gli uomini in nome delle leggi. Su esse fonda platonicamente la società.
Quando il giudice si aggrappa giorno per giorno a questa utopia, noi sentiamo che il suo assassino
uccide anche ciascuno di noi, la nostra fatica civile, le nostre illusioni. Ma c’è anche qualcosa di

peggio, terribilmente peggio. Dalla morte del generale Dalla Chiesa allo smaltimento del pool di
Falcone, dal recentissimo licenziamento di Sica all’eliminazione di Scopelliti, non avvertiamo più vera
indignazione, rabbia, voglia di reagire. Soltanto pietà, assuefazione, ineluttabilità. Questo è il Paese
dove, in maniche di camicia, tra una battuta e un alpeggio, si può decidere di graziare un capitolo di
storia ancora calda di sangue e di ideologia, di drammi sinceri e di irriducibili tragedie personali.
Questo è un Paese che si tormenta su un’emergenza di ieri senza saper ancora affrontare fino in fondo
quella di oggi. Curcio e Scopelliti fissano così, nelle stesse ore, il ritratto di un’Italia malata, che oggi
non sa fare i conti nemmeno con il tempo. Non sa né perdonare né mobilitarsi: tra una grazia di Stato e
un funerale di Stato, lo Stato si svela sempre più re nudo.

agosto 1991