1990 novembre 4 Vivere informati

1990 novembre 4 – Vivere informati
Accade qualcosa di radicalmente nuovo: l’informazione abita così stretta con noi da non fare notizia.
Ciò che conta non è più il fatto, ma il flusso dei fatti: uno smisurato fiume che fino a ieri guardavamo
dalla sponda, e nel quale oggi nuotiamo senza poter mai più approdare. La rivoluzione delle
rivoluzioni, perché modifica il senso della realtà. Nati nell’incubatrice del mondo in diretta, soltanto i
giovani sono figli naturali dello spettacolo: osservano con occhi attrezzati, nuotano almeno nella loro
placenta. Altre generazioni compiono miracoli di aggiornamento umano e culturale per orientarsi. Ma
tutti, giovani e non, convivono nella tempesta di messaggi senza dominarla, pagando un prezzo per ora
tutto da calcolare. La casa, le patetiche quattro pareti domestiche, non esistono più come luogo della
separatezza, del lasciarsi il mondo dietro l’uscio. Anzi, nel privato s’installa il primo studio mobile: le
notizie non stanno fuori, sono tutte dentro, formano l’arredo quotidiano, il vero lessico familiare, la
prima scuola. Tra televisione che rimanda all’edicola, giornali che preparano l’immagine, radio che
moltiplica la parola, il 98% delle persone ha imparato a ricevere, non ancora a organizzare questa
privacy planetaria. Nulla arriva mai nel profondo, tutto sembra incessantemente transitare dentro la
nostra vita, provocando allo stesso modo fame e vertigine da informazione. O, anche, un fenomeno
prima sconosciuto: la mezza notizia, il fatto latente, l’apparenza, l’assuefazione, alla fine l’impotenza.
Più si amplifica il potere d’informare e meno si irrobustisce la riflessione: i tempi di reazione si sono di
colpo accorciati; nel giro di 24 ore un pugno nello stomaco scade a telenovela. Memoria e attimo
tendono a coincidere, come drammaticamente dimostra la crisi del Golfo, che in termini energetici ha
ogni premessa per risultare la più devastante dell’ultimo mezzo secolo. L’attesa di guerra ci
accompagna da tre mesi come un qualsiasi oroscopo o le previsioni del tempo; tutto si mescola e si
confonde, la paura con l’indifferenza, la distratta apprensione con l’esorcismo. Non c’è tempo
nemmeno per l’angoscia; l’incubo dev’essere rapido, al diapason dell’emozione sennò ci abbandona
sulla riva di altra informazione, di altra evasione. Entriamo e usciamo dal tempo, come in una porta
girevole, né seriamente preoccupati né moderatamente confortati. Il nostro stato è normalmente
sospeso: il molto che sappiamo produce poca conoscenza. E l’altro ieri è già passato remoto.
Soprattutto chi si formò nel senso delle stagioni, della vita che reclama i suoi cicli, del tempo misurato
a mano, della comunicazione come fatica, soffre oggi di un corto circuito tra ricordo e attualità. In
pochissimi anni, anche la parola “partecipazione” non ha più lo stesso significato: negli Usa,
laboratorio che anticipa i fenomeni dei nostro tempo, per manifestazione politica di massa s’intende
oramai “tre persone nella stessa stanza davanti a un televisore”. La piazza sta in casa; lo spot sostituisce
il sermone. Leggiamo il destino sulle linee del monoscopio e sulle righe del giornale, chiromanti di
giornata; se il mondo si è fatto all’improvviso più piccolo, la perdita di confine ci ruba riferimenti, una
qualche bussola. Forse nessun neologismo contiene
la
“globalizzazione”, il vivere in duplex, ora per ora qui e altrove, nel locale e in mondovisione, nel
diretto e nel mediato, nel reale e nell’immaginario. Ci si interroga. Se l’overdose di guerra, di mafia, di
segreti, induca mobilitazione o rassegnazione. Se riferire un suicidio altri ne fomenti. Se denuncia
generi qualunquismo. Se informare possa formare. Se l’indifferenza non sia una forma di autodifesa
contro lo strapotere del comunicato sul vissuto. Se la droga delle droghe non riguardi anche l’ambiguità
delle parole in una fase in cui, come la nostra, muta alla radice il linguaggio; e con esso il tempo e lo
spazio dello scambio, del dialogo, della cronaca che si fa prestissimo storia. Non sappiamo se migliore
o peggiore, ma di sicuro è un altro destino, che soprattutto ai giovani chiede una inusitata forza
d’animo, in bilico come si trovano tra speranza e nichilismo, tra una cultura che li istiga al mondo
nuovo e l’ordinario annuncio di apocalisse. Con l’implacabile sorriso del fisico, il Nobel Rubbia ha

tanta solitudine personale quanto

ripetuto qualche giorno fa a Treviso che entro 50 anni l’uomo porterà la Terra al disastro terminale.
Perché i giovani non dovrebbero consumare tutto e subito se, nel generale disinteresse, l’informazione
più attendibile li priva già oggi del futuro? Vivere in diretta è più difficile che vivere.
4 novembre 1990