1988 gennaio 24 Città assediate

1988 gennaio 24 – Città assediate
Con sentenza depositata il 14 gennaio scorso, la Corte d’Appello di Venezia presieduta dal giudice
Covassi ha annullato il processo di primo grado per Io scandalo tangenti che aveva portato alla
condanna di esponenti socialisti della vita politico-economica veneziana, quali Livieri, Danieli e altri.
Le conclusioni della Corte d’Appello sono state di una durezza inusitata nei confronti della prima
sentenza. Vi si legge testualmente: «L’abnormità della situazione processuale verificatasi è di solare
evidenza… La situazione patologica che si è verificata è stata talmente enorme che nemmeno era stata
prevista dal legislatore, che non avrebbe potuto prevedere che pervenissero al dibattimento atti
“mutilati” (e atti non di poco momento) con la dizione “omissis”, atti a cui erano state tolte frasi, a
discrezione dell’organo della pubblica accusa». In sostanza, una condanna della condanna, un processo
al processo, motivato più impietosamente di quanto si attendessero gli stessi difensori degli imputati. Il
caso è clamoroso, ma tutt’altro che concluso dal momento che la Procura veneziana, nella persona del
giudice Fortuna, ha già impugnato anche la sentenza della Corte d’Appello che, per il riferimento
politico ben preciso degli imputati, si presta come la prima a inevitabili usi di carattere extra-
giudiziario. Buoni o nulli, veri o presunti che siano, è il destino di tutti i processi per tangenti perché gli
intrecci tra pubblico e privato, la collusione tra burocrazia e appalti, la collateralità tra mediazione e
finanziamento occulto dei partiti sta diventando ovunque sistema, tanto da costituire non più
l’eccezione ma pressoché la regola. Non per nulla il ministro Signorile propose lo scorso anno di
tagliare la testa al toro e di legittimare la tangente! In attesa della Cassazione, non interessa entrare qui
nel merito del caso che sta tanto profondamente dividendo alcuni giudici veneziani. Ma anche questo
processo, tutto immerso nell’ambiguità delle denunce, delle testimonianze, degli intrallazzatori, degli
incensurati sempre attentissimi a non lasciare impronte digitali, rappresenta uno spaccato tra i più
esemplari di un mondo dove il confine politico, etico e penale fra perbenismo e corruzione è ogni volta
più impalpabile. Dove quindi si ostenta la difficile discrezionalità del giudice. Ci sono le tangenti e,
quando non ci sono, le surroga il sospetto d’esse. Sicché la vita pubblica ne risulta sistematicamente
inquinata, nella migliore delle ipotesi dalla sfiducia, dal qualunquismo, dalla dietrologia. Oramai il
costume corrente impone quasi l’inversione dell’onere della prova: più che la tangente, va provata
semmai la sua assenza. Chi crede più a un appalto pulito? È umiliante porsi tale interrogativo, eppure
viviamo tutti in presunzione di colpa. È sintomatico quanto accade, sempre a Venezia, a margine della
crisi comunale in atto da quattro mesi. Dietro la facciata della politica, crescono le allusioni agli
interessi», alle «lobbies», ai seimila miliardi in arrivo per salvare la città e la laguna. Come se il
problema non fosse di coordinare e di sottoporre a controllo di qualità il lavoro di un Consorzio
d’imprese di per sé prestigioso, ma di mettere le mani sul suo presunto «indotto», a dispetto dello
stesso Consorzio. In Italia esiste un partito degli affari che attraversa i partiti e che spesso spiega
risultati a scrutinio segreto altrimenti inspiegabili. L’appalto scotta a tal punto che il sindaco di
Palermo, città dove fare il sindaco significa stare nella mafia o sfidarla o morirne, ha con eccezionale
coraggio chiesto al Governo di «liberare la Sicilia dai grandi progetti», cioè di tagliare fuori regione e
comune affidando le migliaia di miliardi in arrivo per i piani di sviluppo direttamente a un super
«provveditorato» dello Stato. Ciò a costo di rinunciare per la prima volta in quarant’anni al tradizionale
principio di autonomia rivendicato dal Meridione e in particolare dalla Sicilia. Il sindaco Orlando spera
di far mancare al mattatoio mafioso almeno il puntello della spartizione locale delle opere pubbliche; e
Dio solo sa cosa rischia. Anche se le strade della tangente pubblica sono infinite, il problema è
nazionale. Squarci del taglieggiamento sistematico emergono in questi giorni da un’altra istruttoria che
riguarda costruttori padovani e veneziani. «Diciamo
le competenze

le cose come stanno:

amministrative a catena, i logoranti passaggi burocratici non si spiegano forse con il fatto che ogni
partito della maggioranza pretende la sua fetta di tangente su ogni opera pubblica o altro lavoro
finanziato dal Tesoro?». A chiederselo non è un pubblico ministero, ma il neo-presidente dei costruttori
italiani, l’ingegnere bresciano Riccardo Pisa. Il quale aggiunge: «le tangenti ci sono dappertutto, ma
nell’edilizia e nelle opere pubbliche più che altrove perché l’intero processo dipende dalla pubblica
amministrazione. Per combattere questa realtà abbiamo un’unica arma: chiedere procedure ferree per
l’assegnazione di lavori o licenze». Dei 117 mila miliardi stanziati dalla finanziaria 1987 per il settore,
soltanto 21 sono stati spesi! In compenso, prima di arrivare a realizzazione, un’opera ha bisogno di
dodici passaggi burocratici, vera e propria cuccagna non soltanto per la tangente politica ma anche per
certo sommerso dei funzionari. Nell’insieme, il 10-12 per cento dell’appalto. Questo Paese, fondato su
una Costituzione progressista e sul tenace lavoro di intere generazioni, si ritrova oggi a dover fare
pesanti conti con la caduta di alcuni valori e in particolare con la persistenza di meccanismi immaginati
a suo tempo per una società più statica e più ingenua, certamente più ipocrita ma senza dubbio meno
spregiudicata. Perciò non ha senso richiamarsi ora a un improbabile senso dello Stato se lo Stato fa
pochissimo per stare al passo con sfide via via più smaliziate che proprio nella burocrazia trovano un
involontario alleato nell’inquinare partiti, amministrazioni, vita pubblica. Servono nuove forme di
difesa tecnica e la coscienza del pericolo dell’assuefazione. Da soli i carabinieri non bastano: i briganti
non hanno più recapito in Aspromonte.
24 gennaio 1988