1987 luglio 21 Il prezzo più basso

1987 luglio 21 – Il prezzo più basso
Caro Turoldo,
tu certamente conosci quel passo in cui, raccontando il suo sottosuolo interiore, Dostoevskij fa dire:
«vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia». No, tu ami i profeti, e questi
accettano anzi sfidano le malattie, siano esse la coscienza o l’artrosi.
Un giorno hai definito Papa Giovanni «profezia della nostra storia, di come dovrebbe essere il nostro
vivere e il divenire del mondo». So che di quel Papa capitale condividi la «pazienza che vince tutto» e
che, a dispetto del gelo del mondo, scorgi il «fuoco che cova sotto la cenere».
Se così non fosse, non si spiegherebbe l’urlo della tua denuncia accompagnato dal richiamo alla
«coscienza dei cosiddetti cristiani» né il lapidario giudizio che condividendo in pieno: «io sento che
l’Occidente può essere tanto la salvezza quanto la rovina del mondo».
È una responsabilità che atterrisce, ma che non può essere evitata. Al cristiano lo slalom non è
consentito, e non lo soccorre nemmeno quella «politica del miracoloso» che spingeva i giovani
romantici a superare l’ultimo limite, fino all’utopia. Più rivoluzionaria è la pazienza» di continuare a
ficcare il lievito dell’uomo nella pasta del mondo: anche se non ricordo chi, qualcuno ha detto che al
mondo non c’è abbastanza amore perché lo si debba sprecare altrove che sull’essere umano.
A parer mio, la pazienza – cristiana o laica che sia non fa molta differenza –consiste nel rifiutare
l’abitudine al delitto. Cioè nella capacità di reagire ogni volta come se l’ultimo fosse il primo; evitare
che l’ingranaggio atomizzi la sensibilità, per assuefazione «da troppo».
Sullo stemma delle SS, razza eletta del nazismo, spiccava la scritta «Got mit uns», Dio con noi. E in
Libano i «Guerriglieri di Gesù» danno un buon contributo alla carneficina. Niente più della violenza
politica riesce a manipolare le parole, sicchè Dio va in prima linea per tutti, con l’Iran, con l’Iraq, con
i Tamil e con i Sikk, un tanto a massacro un tanto a preghiera.
Quando quei «contra» del Nicaraqua fanno il tiro a segno con la piccola Cristina, il primo sentimento
è lo smarrimento, una miscela di rivolta e di rassegnazione. Perché poi, quando le cose si fanno troppo
grandi, i rischi di perderle, di non riuscire a trattenerle nel cervello. Lo aveva detto Albert Camus, che
il delitto era solitario come il grido e che ora è universale come in scienza.
Ma mi sentirei un ipocrita, e so quanto l’ipocrisia ti offenda, se non ti proponessi un dubbio anche a
rischio di ridurre la povera Cristina e le tante Cristine del Sudamerica all’infinitamente piccolo dentro
l’infinitamente grande della quotidiana ferocia. Non il tiro a segno sui bambini lo guardiamo tutti i
giorni, bambini fatti morire con 62 coltellate e non so quante martellate da una ragazzina di nome
Tania che ama i film dell’orrore, bambini violentati in una corsia di Policlinico, bambini sparati in
faccia perché hanno visto la mafia, torturati perché disturbano, mandati in coma perché scomodi,
lasciati tra le immondizie perché accidentali, fatti volare giù dalla finestra per nervosismo.
Mi chiedo allora se la questione si possa mettere tutta nei soli termini di Occidente o di Est, di
cristianesimo o di ateismo, e se piuttosto non abbia visto giusto Ivan Karamazov nel pensare che di
amore al mondo ce n’è fin troppo, ma risulta senza oggetto.

O, forse, sbaglia oggetto, finisce tutto sulle cose, non riesce più a distinguere, si riduce a ciò che ha
prezzo, e tra le cose che valgono meno c’è la vita umana. In fondo sono passati pochi giorni dalla
nascita del cinque miliardesimo bambino che già il boom demografico dei Paesi poveri e poverissimi
lo ha dimenticato a colpi di decine di migliaia di nascite: perché mai dare tanta maniacale attenzione
al valore della vita, di una sola vita?
In una poesia Borges scriveva di un gruppo di uomini che avevano preso la «strana» decisione di
«essere ragionevoli». Forse quei «contra» che sparano su Cristina hanno letto Borges e trovano
«strana» non dico la ragione ma persino la pietà. Forse la crudeltà di massa li fa sentire addirittura
«innocenti», à la page, con il look giusto. Forse sanno che l’opportunità diplomatica degli Stati fa sì
che risulti tuttora libero e impunito Pol Pot, il massacratore di tre milioni di cambogiani.
Caro David Maria Turoldo, nostro instituibile Isaia, un mondo che non processa Pol Pot può tutto. E il
tuo urlo si disperderà nel patto dei silenzi.

luglio 1987