1987 luglio 12 La nuova Atene e le tangenti

1987 luglio 12 – La nuova Atene e le tangenti
Chiudendo lo scorso aprile il congresso del Psi, Craxi fece riferimento alla «questione morale»
nell’ambito delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali sulla base di tutti i casi giudiziari di
cui ha dato notizia l’Ansa in questi ultimi tre anni e che riguardano procedimenti, proscioglimenti,
condanne o assoluzioni relativi ai tre maggiori partiti.
«Ebbene – dichiarò il leader del Psi – su un totale di 117.700 amministratori, i casi emersi sono stati
734, pari allo 0,62 per cento, così suddivisi: 425 Dc, 159 Pci, 201 Psi. In totale, nel corso di questi tre
anni, le condanne sono state 131: 44 Dc, 55 Pci, 201 Psi. Naturalmente nessuno deve essere ipocrita e
ignorare che questo è solo ciò che emerge di una realtà che presenta un’area di inquinamento
probabilmente più vasta».
È più vasta, enormemente più vasta. Ciò che risulta alla magistratura e alla stampa è soltanto la punta
dell’iceberg. Il peculato, la concussione, il finanziamento occulto, la corruzione degli appalti, la
tangente di accesso, stanno diventando la regola al Nord come al Sud e – dietro la facciata del
benessere diffuso – devastano il costume della vita pubblica a Torino, Roma o Firenze come a Venezia
o Padova.
Il taglieggiamento di partito e personale risparmia pochi settori. E trova particolarmente inquisiti i
socialisti proprio nel momento in cui puntano tutto sul riformismo: «Dobbiamo andare – ha spiegato
Martelli a Occhetto durante un faccia a faccia promosso dall’Espresso – in direzione di un socialismo
liberale nuovo, figlio della storia italiana. Cercare un’altra filosofia della società, una nuova Atena».
Ma se c’è nella storia italiana un richiamo «liberale» che resiste, questo riguarda l’etica della politica,
vedi Croce, Gobetti Einaudi. Ma se c’è una Atene che permane nel tempo, questa non può che essere la
Atene di Pericle, disinteressato e integerrimo nell’amministrare il bene pubblico.
Non ci potranno essere né «socialismo liberale» né «nuova Atene» della sinistra senza frugare fino in
fondo negli armadi della gestione del potere. Lo predica da tempo Norberto Bobbio, il troppe volte
inascoltato Catone del socialismo italiano, insistendo nella «battaglia alla corruzione»; lo ha capito
benissimo Rino Formica definendo una vergogna per il Psi le 49 mila preferenze raccolte a Brindisi da
Rocco Trane, segretario del ministro dei trasporti Signorile, negli stessi giorni dello scandalo per
l’appalto dell’aeroporto di Venezia.
Ma ci sono contemporaneamente segni che lasciano a dir poco sconcertati. Vedi Signorile il quale,
ritenendo pressoché generalizzati i «formicolii» da tangente, confessa al Corriere di non trovare altra
soluzione che quella di rendere «trasparente» (che brutta fine ha fatto un bellissimo aggettivo!) il
rapporto tra partiti e imprese mettendo le tangenti in bilancio, alla luce del sole. In poche parole, visto
che non si può non corrompere, decretare la tangente giuridicamente lecita.
Mentre Craxi s’impegna a dare maggiore attenzione alla «questione morale», non mancano altri segnali
di ambiguità. Nel difendere un funzionario della direzione e collaboratore dell’amministrazione
centrale del partito, gli stessi Craxi e Martelli hanno infatti denunciato la «giustizia ingiusta che usa
l’arresto come mezzo di coercizione per ottenere prove che mancano».
Non che il problema sia da poco, anzi segnala la qualità del diritto. Con tutta la sua autorevolezza e
franchezza, Feliciano Benvenuti ha affermato nei giorni scorsi a Venezia – di fronte a uno stuolo di

magistrati e di avvocati – che «il giudice è un magistrato, non un funzionario né un impiegato» e che
«suprema regola del giudice devono essere prudenza e responsabilità tali da escludere per principio la
costituzione di prova attraverso la cattura».
Se ciò invece accade frequentemente lo si deve anche a codici penali e civili che Benvenuti chiama
«arcaici», di una ideologia e di una società che nulla hanno più a che vedere con l’Italia d’oggi.
L’istanza per una giustizia giusta rimane dunque più che mai all’ordine del giorno, ma i socialisti
farebbero bene a non usarla come paravento buono per tutti gli usi e a ricordare che la «giustizia
giusta» prevede anche un minimo di cautela finché non si conoscono nel dettaglio le motivazioni dei
magistrati.
La corruzione è l’arma dei mediocri, sosteneva Balzac. Non basta dire, come ha fatto Formica, che si
tratta di un «nodo oramai centrale» per la democrazia. Non aiuta nemmeno lo scaricabarile
sull’astrattezza dei «partiti tutti uguali» o della «fisiologica» corruttela del potere, dato che il rinvio a
giudizio di un’intera classe politica finisce con l’assolverla per «non potersi procedere».
Serve ben altro. Opporsi al lassismo di quella che Bobbio chiama «una scuola di rassegnati». Sapere
con chiarezza che se l’occasione del potere fa l’uomo ladro, il ladro ne inventa occasione.
Rendersi cioè conto che il problema dei partiti è prima culturale, poi politico. Che ogni politica
rampante nasce da una cultura dell’affarismo dove si mescolano pubblico e privato con la sola
precauzione dell’incasso. Che soprattutto chi intende raccogliere il consenso di ceti emergenti e in
movimento non può ridursi a gestire i vizi.
Né le democrazie, come teme François Revel, né tantomeno i partiti finiscono per eccesso di
autocritica. Semmai il contrario: per occultamento delle verità più scomode.

luglio 1987