1987 febbraio 4 Queste regioni vanno rifatte

1987 febbraio 4 – Queste Regioni vanno rifatte
La protesta dei Comuni del Veneto contro gli attuali criteri di distribuzione dei finanziamenti dello
Stato ha svelato in modo contabile quello che è invece il grande problema politico dell’autonomia. La
quale non riguarda soltanto una gestione meglio decentrata presso i Comuni delle risorse della
collettività, ma investe il ruolo stesso della Regione: nessuno ha il coraggio di dire senza peli sulla
lingua ciò che oramai emerge con prepotenza dal rapporto tra Istituzione e cittadini. E cioè che le
Regioni a statuto ordinario non stanno più bene a nessuno, che così come sono soffrono di una grave
sperequazione finanziaria (da 1 a 4) rispetto alle Regioni a statuto speciale, che le materie sulle quali
possono legiferare andrebbero ampliate, che in sostanza il preziosissimo istituto regionale va potenziato
attraverso un rilancio in grande stile dell’autonomia. Se il Piemonte accentrò temendo le forze
centrifughe di uno stato unitario troppo giovane; se il fascismo addirittura accentuò il centralismo per
coerenza, di regime, oggi la Repubblica non corre il minimo pericolo: ha talmente consolidato la
democrazia da aver convertito la sinistra alla socialdemocratizzazione la destra al doppiopetto e può
oggi affrontare senza tabu costituzionali la sfida che il 2000 impone a vantaggio di una struttura statale
più «snodata». La Costituzione non vale le tavole di Mosè. Essa stessa prevede meccanismi di
revisione in grado di adeguarla dopo 40 anni a un’Italia che ha cambiato totalmente pelle
agganciandosi per scelta strategica all’Europa. L’espansione dell’autonomia delle Regioni,
omologando o equiparando le «ordinarie» alle «speciali», rappresenterebbe senza dubbio la vera
riforma istituzionale: che oggi più che mai consiste nel far crescere l’attaccamento dei cittadini alla
cosa pubblica e nel responsabilizzare sempre più in periferia le entrate, le spese, i servizi. Ciò che vale
per tutti viene avvertito con particolare intensità dal Veneto, non in base a patetiche e antistoriche
contrapposizioni allo Stato ma perché il Veneto è l’unica regione a statuto ordinario che vive una realtà
economicamente, socialmente e politicamente sempre più integrata con una regione a statuto
specialissimo, il massimo dell’autonomia, quale il Trentino-Alto Adige e una regione a statuto speciale
quale il Friuli-Venezia Giulia. Il problema non si pone per le Isole (Sardegna e Sicilia) né per una
pseudo-isola (Valle d’Aosta). La qualità dell’autonomia si fa giudicare più che altrove qui, nel
Triveneto, nell’Italia del Nordest, nell’intreccio anche storico di tre regioni che hanno suppergiù la
popolazione della Svizzera, oltre sei milioni di abitanti, e che si confrontano giorno dietro giorno,
gomito a gomito, con l’esigenza di poter contare su uno sviluppo coordinato, ma anche con le
contraddizioni di punti di partenza istituzionali troppo diversi. Il malessere può così sfociare in una
polverizzazione di campanile che rappresenta l’angolo cieco dell’autonomia e che si traduce alla fine in
cocenti boomerang.
Chi ha auspicato per Verona la provincia autonoma, quasi in posizione di neutralità rispetto al Veneto,
o chi vagheggia la frantumazione della Regione Friuli-Venezia Giulia percorre la strada esattamente
contraria di quella che porta all’irrobustimento del Triveneto nel suo insieme e delle tre regioni in sé. Il
policentrismo del Veneto contempla per definizione le diversità e l’ultimo documento del suo
Consiglio Regionale per gli anni ‘90 assume come indirizzo «la massima apertura e la massima
capacità di relazione con i paesi vicini e le regioni limitrofe». Quanto al Friuli-Venezia Giulia
l’autoisolamento di Udine rispetto a Trieste metterebbe in moto le spinte a quel punto più che legittime

della Carnia e di una Pordenone che è nata per mediare l’anima veneta e friulana. Ne risulterebbero
impoverite sia l’autonomia che le risorse per gestirla. No, nella cerniera dell’Europa, il Triveneto
rappresenta un potenziale enorme di sviluppo, con il Veneto avanguardia di un rinnovamento delle
Regioni che oggi pare nebuloso e che domani sarà inevitabile. Non per impoverire le «speciali» ma per
arricchire le «ordinarie»: come dire che è tempo che la Costituzione opti per i suoi modelli migliori.
4 febbraio 1987