1987 dicembre 09 La sfida

in molti a considerare

1987 dicembre 09 – La sfida
Un punto di partenza non un traguardo
Né Reagan né Gorbaciov sono San Francesco, qui nessuno offre l’altra guancia. Se per la prima volta
hanno deciso di buttar via un bel po’ di missili, lo si deve a calcoli incrociati. La pace è sempre una
scommessa con il futuro, anzi la più temeraria delle utopie.
Limitare gli arsenali di morte non basta più, occorreva cominciare a svuotarli. Ma la questione
fondamentale è un’altra: qualsiasi accordo presuppone l’affidabilità dei contraenti. Ci si può fidare di
Gorbaciov? Se sì, l’accordo andava fatto anche pagando un prezzo; se no, conveniva lasciare le cose
come stanno, senza alterare l’aritmetica del terrore nucleare.
Inutile gironzolare con l’elenco degli euromissili attorno all’ostacolo. La conta degli Ss 20, dei Cruise e
dei Pershing 2 da distruggere risulterà davvero storica soltanto a condizione che il rinnovamento
dell’Urss diventi altrettanto storico e che Gorbaciov non interpreti solo il look imborghesito dello
stesso Impero degli ultimi quarant’anni.
Sono
l’Occidente prigioniero dell’«immagine» che Gorbaciov ha
irresistibilmente saputo offrire di sé. Le cose sono meno banali di quanto non sembri. In realtà,
l’Occidente e l’Urss hanno bisogno l’uno dell’altra come del pane: per la sicurezza, per gli affari, per
risparmiare fiumi di denaro divorati dai ministeri della guerra, per essere i leaders del mondo più che i
suoi gendarmi.
Gorbaciov sta legittimando questa attesa. Mai come oggi noi occidentali sentiamo che forse il disgelo
non è più un modo come un altro di fare politica di dominio e che allude invece a processi di profonda
revisione. Gorbaciov a Washington non è nemmeno lontano parente di Stalin a Yalta, dove si consumò
la grande illusione di sorrisi dell’«orso russo».
Ma saremmo pazzi furiosi se non ci rendessimo conto che la grandezza dell’accordo di ieri sta tutto
nella sua limitatezza. E’ storico come partenza: non lo sarebbe per niente come traguardo. La sua vera
portata dipende dalla capacità di reazione a catena, a cominciare dall’Europa: se quella fondata
sull’equilibrio degli euromissili era una odiosa sicurezza, quella basata sullo squilibrio degli
schieramenti convenzionali non è nemmeno sicurezza. Qui si andrà davvero al sodo della credibilità di
Mosca.
Sono problemi giganteschi, sfide che impegneranno generazioni. Paradossalmente, Reagan li affronta
nel momento di maggiore debolezza personale, Gorbaciov nella fase più delicata del suo riformismo.
Che entrambi utilizzino il trattato anche per spinte di politica interna è del tutto normale e nulla toglie
al valore dell’accordo: da quando mondo è mondo, la politica estera non fa che espandere o isolare
quella interna.
Il pragmatismo di una grande democrazia come gli Stati Uniti si confronta con l’Urss alla quale chiede
di essere meno «sovietica». Mentre gli ultimi leninisti attendono sempre più flebilmente che scoppino
le «contraddizioni» finali del capitalismo, l’Occidente favorisce le «contraddizioni»finali del
comunismo, guidate non senza rischi da Gorbaciov dopo il cupo, interminabile inverno del Cremlino.

Sono fenomeni di lunga portata che vanno accompagnati senza preconcetti, senza scorciatoie, senza
rotocalchismo. Ma la speranza di questi giorni va alimentata con coraggio: in un mondo minacciato la
speranza è un dovere, non un lusso. E anche l’unica arma degli uomini di buona volontà.

dicembre 1987