1984 Febbraio 21 Gli amici a Trieste hanno ricordato il grande Nereo

1984 Febbraio 21 – Gli amici a Trieste ieri hanno ricordato il grande Nereo

Marino era il Forattini del pallone, e riempiva le pagine del vecchio Guerin Sportivo, quello con la testata
verde pastello, formato di quotidiano e niente carta patinata. Assieme a Carosio, Nereo stava in vignetta
puntuale come il prezzo di copertina.
Rocco era nato personaggio senza cerone e ciprie. Quando diventò ospite fisso della Domenica Sportiva,
lamentava di doversi tradurre in italiano : “ze ‘na lingua el triestin”. Padova, Milano, Torino, Firenze, erano
semmai la sua seconda casa; l’unico bene rifugio era Trieste, quell’inquieto senso di frontiera, l’atollo di
un’Europa andata smarrita.
Quando lavoravo a Supersport, Massimo Di Marco intervistava Rocco soltanto al registratore , e lo
riproduceva sul giornale pari pari perché non c’era Rocco senza il suo dialetto. Mentre il linguaggio Rai si
andava romanizzando, il sonoro di Rocco era una rivendicazione di autonomia, il fastidio di un “ caro
vecchio goliardo mitteleuropeo” come lo chiamò Gianni Brera post-mortem. Perciò, ebbe straordinaria
fortuna l’epiteto di “paron”, che Gianni E. Reif, di ascendenza viennese come Rocco storicizzò nel
giornalismo degli anni cinquanta e sessanta.
E’ giusto che il figlio Bruno, che i Rocco, vadano ora alla ricerca del “padre paron”, ambulante di panchina,
anche perché nel calcio d’oggi non potrebbero scovarne traccia, epigoni, eredi e tantomeno sosia. La razza
Rocco è morta con Nereo, il suo calcio umano ha un nome per proprio conto come il vento di Trieste.
Lo fanno ricordare certo cose di Bearzot, la liturgia dello spogliatoio come unica macchina della verità di
una squadra; l’avversione ai giocatori che si fanno notare “por falta de cojones”; un sentimento quasi
contemplativo delle proprie radici; il gusto liberatorio delle battute di una sincerità al sangue. Ma
nemmeno tra Rocco e Bearzot c’è vera eredità perché a separarli c’è l’etnos, così vicino sulle mappe e così
distante nelle culture.
Rocco sorrideva del mondo come chi sa di non poterne essere più sorpreso; la sua ironia stava sospesa tra
Vienna e il mare ,era “cocola”, ineluttabilmente triestina. Bearzot porta dentro le asprezze del Friuli, è
uomo di terra, che sembra difendere la sua roba, anche la sua squadra, con le oscure, antiche paure, del
“senzastoria”.
No, il calcio di Rocco è morto con Nereo. Quando allenava i Padova, e gli convocarono in Nazionale
Brighenti e Mariani, disse : “ se questi due gioga in maglia azzurra, el calcio xe messo proprio mal!”. Non
amava gli inglesi, ma conosceva benissimo lo humor, che oggi affiora-immateriale e allusivo quindi
imbarazzante soltanto in un altro nordico, Liedholm. Pur ricco, pur organizzato, pur azienda di spettacolo, il
calcio delle nostre prime pagine lo immalinconirebbe. Lui che era un divoratore quotidiano di giornali e
edicole, che non risparmiava mai nulla, “bruto mona, cos te gà scrito?!”, si ritroverebbe di una scomodità
unica tra gente standardizzata, patentata, capace soltanto di atteggiamenti in cellophane e sotto vuoto
spinto, di finto fair play di finta disinvoltura di finta correttezza. Il profitto, il contratto, il lucrare
sull’immancabile “dopo”, hanno tolto ai tecnici di oggi schiettezza e coraggio; siedono sulle panchine come
in autobus; le loro interviste sono schede perforate, tutte esattamente uguali, uguali le domande, uguali le
risposte, uguali senza accenti e cadenze, senza dialetti e rabbie, attenti come cassieri.
L’ultima volta che ascoltai la voce di Nereo fu al telefono, io al Gazzettino a Venezia, lui in clinica a Trieste,
quando sembrava che se la cavasse in pochi giorni, forse una bronchite, forse un po’ di fegato ingrossato,
nessuno che temesse per lui e per noi. La voce era ancora la sua, me la risento ancora, “caro giorgietto, el
fegato xe in malora dopo tante rabbie e bevute”. Il prete disse di lui che era “un timido aggressivo”; di
sicuro nello stipulare i contratti era timido per segreto pudore verso un lavoro che allora non si usava
ancora catalogare tra l’effimero, ma che tale già lui sospettava. Rocco ha sempre guadagnato meno di
quanto avesse meritato e dentro quelle sue allegre ganasse, era sinceramente grato a Helenio Herrera per
aver provocato negli anni sessanta un clamoroso rialzo degli ingaggi. “Sto mato de Mago xe a nostra
banca”, mi ripetè un giorno a Lignano Pineta dove con la Maria Barzin in Rocco tentava inutilmente di
dimenticare per qualche ora acri sudori e infiniti rimbalzi di quarantacinque anni di football.
Gli piacevano i film di Gregory Peck, il calcio semplice e il tressette.

Dentro la folla ne aveva disagio, non gradiva le adunate oceaniche, il suo cuore batteva a un tavolo ristretto
di amici, a Torino sotto le gradinate del Filadelfia, a Milano in un angolo dell’”Assassino”cn Carosio, Bruno
Raschi, Ottavio Gori. Quando dava la mano, la ritraeva alla svelta, quasi senza stringerla per una sorta di
istintiva prudenza verso il prossimo, forse ereditata per via cromosonica dal nonno cambiavalute, mestiere
di fiducia e di diffidenze.
Amava il barbera e il grignolino per il loro vigore. Faceva la doccia con i giocatori per carpire tra fumi e
bestemmie i veri umori del gruppo. Fu il campione del “calcio country”, come lo ha definito Bearzot. A
Padova, le sue spie erano gli spazzini, attenti a vigilare sulle ronde sessuali del panzern. Era saggio e
pragmatico, quando gli chiesero un’opinione sui politici, rispose: “ C’è un po’ di confusione in area di
rigore”.
Rocco mi ha via via insegnato che i piccoli aneddoti del calcio vissuto alla giornata sono un po’ come i lapsus
froidiani , che sottintendono un retromessaggio e aiutano a capire ciò che schemi e tattiche, marcature e
bioritmi non lasciano affiorare. A Padova Rocco è molto più di un ricordo; a Milano c’è Farina che vuole un
suo bronzo, cappello in testa, “paron” in ogni sua ruga, da porre all’ingresso di Milanello. Il giorno di un
beffardo 5-3 a Verona, vidi la signora Garonzi piangere in un angolo; stupito, le chiesi perché: “Mi dispiace-
spiegò- che il signor Rocco abbia perso lo scudetto. Avrei preferito che il mio Verona perdesse”.
Se un avversario piange per te, una ragione ci deve essere, e non può essere futile. Nereo Rocco non era
uno dei beni immateriali in voga oggi, era un uomo che aveva corpo come i buoni vini e i rossi quarti esposti
in macelleria. Non bluffava con sé : “ l’allenatore-tagliava corto-è colui che fa andare d’accordo venti
milionari”. Anche la sua anima aveva corporatura, era tutta visibile dentro quelle spalle. Tecnico, girovago o
padre-paron era sempre platealmente in carne ed ossa, bene immobile, tangibile, senza inganni. Lui non
sembrava, era.
Persino di soli ricordi e di impronte qua e là ripercorse è impossibile materializzarlo: Nereo ha fatto
catenaccio anche al tempo. E lo ha bloccato.