1982 Udinese

Udinese 1982

SONO TRE I PADRI DI ENZO FERRARI
Rocco, Lerici, GB. Fabbri
che cosa significano per la panchina della nuova Udinese

Quando l’Udinese transitò da Perani a Giagnoni, gli affidarono la squadra per 90 minuti
contro la Fiorentina. In settimana mi arrivarono in redazione a Mestre alcune fotografie:
toh e questo Enzo Ferrari? mi chiesi.
Lo riconobbi da quel baffone compatto, così squadrato da sembrare persino posticcio. Mi
resi conto di averlo già incontrato a Udine senza sapere di chi si trattasse.
Mi ero fatto di lui un’idea a “prima vista” del tutto sbagliata. Lo pensavo riservato, di
poche parole, un poco schivo. Retrocedendo nella memoria, ricordavo di aver visto quel
tizio qualche mese prima a colazione con Galeone. Era così serio, non l’avevo visto
sorridere nemmeno un attimino.
Dieci giorni fa l’ho conosciuto di persona. Rideva, sorrideva, scherzava, era un torrente di
parole. Ho detto a sua moglie: “Helenio Herrera è un muto al confronto! Ma Gianni Mura,
giornalista finissimo, lo ha gratificato di una appropriata distinzione: “Ferrari – ha scritto
sull’ “Occhio” – non è uno che dice tante cose. E’ uno che ha tante cose da dire”. Ferrari è
arrivato gasato alla serie A. Era una pentola sotto pressione e d’improvviso ha emesso il
fischio, un sibilo di vapore che ha sorpreso Udine e, soprattutto i giornalisti. Il giornalista di
razza sogna sempre di trovare il “personaggio”. Poichè gli schemi non esaltano e poichè
troppe panchine risultano inanimate, è festa di titoli, interviste e corsivi non appena si
scopre che il tal dei tali uscito dalle magne aule di Coverciano non è fatto con lo stampo
ma ha personalità. Figuriamoci poi se il tal dei tali, Enzo Ferrari appunto, ha fatto il ciclista
dipinge ispirandosi agli impressionisti e ha studiato da analista chimico, prima o poi lo
cercheranno i rotocalchi.
Il fatto è che Ferrari ha davvero molte cose da dire. Non è mai ovvio, mezze maniche,
prudentemente scontato. Dice più cose Ferrari in cinque minuti che Bersellini in un
campionato. Allenando la squadra-primavera è come se le sue idee, le sue ambizioni le
avesse covate e dette inter nos, tra pochi intimi, senza il minimo auditorio. Stava sempre
nel retrobottega del calcio, in vetrina mai anche se tra gli addetti ai lavori il
football “attaccante” dei suoi boys otteneva ovunque attestati di stima.
Veneto estroverso, ex giocatore eclettico (ricoprì tutti i ruoli tranne portiere e libero),
Ferrari è venuto alla luce come tecnico dando rumorosi colpi di gong in uno stadio Friuli

che stava tristemente adattandosi a convivere con la serie B. Si è presentato con 7 punti in
quattro partite, il che gli ha consentito di spiegarsi subito, senza timidezza.
Dai tempi di Massimo Giacomini la panchina di Udine non registrava una presenza tanto
intensiva. Me ne sono accorto dai silenzi di Franco Dal Cin! Mi spiego. L’ex manager
elevato alla porpora di amministratore delegato alterna periodi in cui appare (moltissimo)
momenti in cui sfiora l’eclissi (parziale). Non che muti il suo lavoro o che perda l’influenza,
anzi. Si tratta soltanto di immagine pubblica: il tipo di panchina condiziona l’immagine di
Dal Cin. Quando l’Udinese si affida a un tecnico espressivo, che non perde un colpo e,
semmai, il colpo se lo va a cercare da solo, Dal Cin spende poche parole, centellina gli
interventi, assiste e cede il microfono. “Dipendesse da me, farei sempre così” mi confessò
un giorno. Quando al contrario la panchina entra in turbolenza o, peggio, finisce in mano a
gente spenta, allora Dal Cin prende suo malgrado luce. A forza di tamponare la crisi e di
funzionare da guard rail per conto della Spa, in tal caso Dal Cin ritorna con l’apparire più
direttore sportivo che amministratore, e occupa anche la scena tecnica.
Oggi Dal Cin tace. Perani era mezzo suo, Giagnoni non era per niente suo, Ferrari è suo. Sul
piano umano, nessuno meglio di Teo Sanson sa esprimere l’emozione della Spa per il
rilancio in classifica-salvezza. Sul piano tecnico, nessuno riesce meglio di Ferrari a
propagandare sé medesimo e il parco-giocatori. Ragion per cui da un mese a questa parte
Dal Cin ha aperto l’abat-jour e si dedica soprattutto al 1981-’82.
Dicevo della propaganda. Penso a Miano e a Gerolin, per restare ai ventenni, cioè al
capitale più interessante. Ferrari ha affibbiato a Miano un nomignolo brasilero, Zè Paulo
per decantare le sue virtù tecniche. Spiegandone il ruolo, un giorno scrisse su un
bigliettino “può fare quello che vuole”. Intervistandolo per la RDF, mi aggiunse “ha il piede
di Gianni Riviera”.
Il genio di Riviera è un’altra cosa, ma già il piede è roba da leccarsi le dita, soprattutto negli
anni ’80, in genere abbastanza ruvidi. Ferrari è cosi, crede alle sue cose e non riesce a farci
sopra della diplomazia. Rischia sempre molto nei giudizi, a volte mette paura per quanto
appare convinto…
Domenica scorsa verso mezzanotte, dopo aver cenato a Mestre da Massimo Cossio nel suo
covo bianconero dei «Veterani”, Ferrari ha fatto una capatina al “Gazzettino» giusto
mentre stavamo chiudendo in tipografia l’edizione friulana. Ha squadrato con occhio
assassino la telefoto del gol di Tesser sciaguratamente annullata dall’arbitro D’Elia: “ esser
– spiegava – ha fatto due cose bellissime insieme, l’inserimento a rete e il tocco in gol. Dal
Cin è balzato in piedi a pugni chiusi, girandosi verso la tribuna: un attimo e gli ho battuto la
mano sulla spalla, Franco, lo ha annullato! Sanson era annichilito ma gli ho raccomandato:
presidente, stiamo tranquilli, sennò è peggio».
Dietro il conversare ventoso, l’ho scoperto anche diplomatico. Ma insisto che, a sentirlo
dire di giocatori, mette paura. In qualche modo mi ricorda Helenio Herrera dei primi anni
’60 quando, un giorno sì e un giorno no, andavo a trovarlo ad Appiano Gentile, che
alternavo con Milanello. “Facchetti andrà in Nazionale e non ne uscirà più” assicurava il

Mago quando ancora lo stangone di Treviglio raccoglieva i risolini di critici che lo
ritenevano morfologicamente e tecnicamente inadatto al ruolo di terzino.
Ferrari consiglia Tesser nella nazionale di Bearzot: fin qui niente di male avendo l’Attilio di
Montebelluna talento da vendere, già consolidato. Ma, a parer suo, basta avere un attimo
di pazienza e Miano-Gerolin faranno sfracelli. “Vedessi Gerolin a Bologna! – mi dice con
occhi girati all’indietro – Uno spettacolo. Bologna mi secca molto perché non è che ci
abbiano messo in strada con un bel 2-0 pulito, di quelli che t’inchini, prendi su e porti a
casa. No, tra loro e noi non c’erano in campo i due punti di differenza del risultato. Radice
è stato simpatico a dirlo a piena voce».
Assieme a Giacomini, Castagner e Trapattoni, Gigi Radice è uno del poker tecnico che
Ferrari apprezza di più. Con Giacomini la differenza l’ha buttata giù così: “Massimo è più
metodico, perfezionista, scientifico. Io ho più fantasia, invento di più”. In psicologia
s’ispirava a Nereo Rocco, in tattica a Roberto Lerici, in gioco a Giovanbattista Fabbri.
Servite una dose di quei tre, mescolate il tutto con ampie porzioni di verve veneta, agitate
a lungo come si conviene a una panchina di football e avrete Enzo Ferrari, l’allenatore-
brut. O, meglio, il modello cui Ferrari aspira.
L’esperienza di Paron Rocco è stata un esempio, compasso, una nave-scuola
per generazioni di allenatori che hanno capito come il giocatore non sia un meccano e
come una squadra non sia composta di micronauti, a pezzi componibili. Ogni uomo, ogni
giocatore ha una piccola scala mercalli d’emozioni, un segreto interiore che va sfiorato se
non proprio colto: realizzare o no, questo rapporto può significare da solo un risultato o
addirittura una carriera. “Gente come Inferrera, Fara o Vendrame – afferma Ferrari – non
ha avuto fortuna nonostante le grandi qualità perché ha trovato allenatori che ragionano
con il compasso».
Se ho ben capito, Ferrari non è però un qualunquista, un sentimentale. Lo dimostra il suo
richiamo tattico alla lezione di Roberto Lerici, ligure che ispirò il razionalissimo Lanerossi
Vicenza dei primi anni ’60, quello che esaltò in serie A persino le modeste risorse tecniche
di giocatori quali Zoppolletto, De Marchi e compagni. Il Vicenza che Lerici consegnò in
mano al suo allievo Manlio Scopigno.
Lerici significava due cose: la geometria e la preparazione. Per Lerici il campo di gioco è
sempre un invisibile intreccio di linee, di schemi, di possibilità, di sovrapposizioni. Il tecnico
modesto o non se ne avvede o ne intuisce poche: più cresce la qualità del tecnico, più il
campo rende visibili le sue infinite geometrie. Giocare a memoria è un po’ come volare con
il pilota automatico: solo allora le nebbie tattiche si diradano; la pista d’atterraggio del gol
la intravvedi con minor sforzo e più precisione.
La preparazione. Buon amico e collaboratore di Lerici era il prof. Garulli, di Bologna. Un bel
tipo d’uomo, spalle solide, sopracciglia nere e folte, la conoscenza direi scientifica di un
lavoro serio, metodico, duro. Il professore li faceva lavorare razionalmente i giocatori, e
molto; era in anticipo sui carichi di fatica poi adottati dalla scuola olandese dell’Ajax, da
Kovacs a Michels. Ma in Italia chi precorre i tempi predicando più sacrificio viene espulso

perché scomodo: così si finì con il dire che il prof. Garulli spremeva i giocatori, li faceva
sudare troppo!
Ne è passato di tempo da quegli anni, ma quando Ferrari ricorda Lerici non fa patetica
rimembranza. Ci crede per davvero. Non a caso una settimana fa si è incontrato con il prof.
Garulli: assieme a i Cleante Zat, fatto della stessa solida pasta professionale, ne è nato uno
scambio serrato d’esperienze e di consigli. “È sempre forte il professore – ricorda Ferrari di
quell’incontro a tre – per tre quarti d’ora Garulli ce lo siamo ascoltato tutto d’un fiato”.
Certo che questo Ferrari è parecchio strano. Impasta assieme ispirazioni diversissime,
come Rocco o Lerici, per non parlare di Gibi Fabbri. Rocco passa per il padre fondatore del
catenaccio: Fabbri per il tecnico che ci rimette le panchine pur di non rinunciare mai al
gioco d’offesa. Senza dubbio il miglior calcio visto in Italia negli ultimi cinque anni
appartiene al Vicenza 1978 di Gibi Fabbri, il Vicenza secondo in classifica alle spalle della
Juve, il Vicenza del gioco total-provinciale, di Paolo Rossi e Salvi, di Cerilli e Carrera, di
Filippi e Guidetti.
Gigi Fabbri è tutto in un sostantivo: liberazione. Il suo messaggio di gioco tende a liberare
al massimo il giocatore, a dargli espressività, a non ossessionarlo con la marcatura. Mia
impressione è che su questo piano Gibi Fabbri ed Helenio Herrera parlino oggi lo stesso
vocabolario: nel senso che HH sostiene un sistema misto, marcatura a uomo in difesa, a
zona in centrocampo. Precauzione più liberazione. Seconda mia impressione è che anche
Ferrari bazzichi i primi interessanti passi della sua carriera attorno a questa ideologia della
pedata.
Quando dice: «Miano può fare in campo quello che vuole». Quando lascia a Tesser di
esprimere il meglio di sé sull’out sinistro senza mettergli a centrocampo la cintura di
castità. Quando imposta la retrovia in maniera da poter garantire a Neumann: “tu non
preoccuparti di marcare, tu pensa a fare gioco”. Ecco, quando pensa tutto questo, Ferrari
sta nel grande alveo del calcio moderno, il calcio che cerca di legittimare lo spettacolo. Ad
Enzo Ferrari, veneziano di San Donà adottato dal Friuli, auguro di essere domani ciò che
sta sognando oggi.

Ferrari e “Ze Paolo”.