1982 giugno 14 Mondiali di calcio

1982 giugno 14 – Mondiali di calcio
Una partita sorprendente
Battuti gli assi argentini
Gli azzurri in campo a Vigo contro i temibili polacchi

Il Mundial ’82 ha avuto un inizio a sorpresa: l’Argentina campione del mondo,
qualificata d’ufficio alla fase finale, è stata battuta dal Belgio nella partita inaugurale.
Dopo un inizio promettente, la verve degli argentini si è via via smarrita di fronte
all’organizzatissima difesa belga.
Una sola volta i campioni del mondo son andati vicini al gol, con un tiro al volo di
Diaz, neo-centravanti del Napoli. Poi il Belgio ha preso via via l’iniziativa bloccando
sul nascere le azioni ispirate da Maradona e proponendo contropiede pericolosi. Il gol
decisivo è stato segnato da Vandenbergh al 63’.

Dall’inviato
BARCELLONA – Alle cinque della sera, per l’esattezza alle cinque e un quarto,
l’Italia inaugura oggi a Vigo il suo Mundial. Contro i polacchi, su un prato liscio
come una guancia appena rasata, Enzo Bearzot chiede alla Nazionale di accendere il
gioco. Fiat lux. Quante storie fanno la storia della «squadra di tutti». La prima volta
che la Nazionale vestì la maglie azzurre fu alla sua terza partita, nell’inverno del
1911, alla vecchia Arena di Milano, abolendo così le casacche bianche con polsi e
colletto inamidati! L’azzurro era il colore di casa Savoia. Oggi la Nazionale
pubblicizza un marchio d’abbigliamento francese. I tempi sono cambiati.
É cambiato via via tutto, il mondo, la vita, il calcio, noi. Bruno Roghi scriveva che il
motto del terzino Calligaris era: «Morire di fatica ma vincere». Per il portentoso tiro,
Levratto era chiamato «lo scassinatore di reti».
L’epica rubava il posto alla tecnica. Le cifre paiono uscire da libri di improbabili
favole: negli anni ’30 un posto in tribuna costava 12 lire. E bisognò attendere gli anni
’40 perché il trasferimento di Loik e Mazzola, dal Venezia al Torino, toccasse
l’iperbole di un milione in contanti.
Oggi a Vigo gioca la Nazionale di un calcio che, per quanto supermonetizzato, non
riesce a uccidere un’antica emozione. In un tempo in cui soltanto Sandro Pertini usa
con il tono giusto la parola «Patria», undici professionisti del pallone entrano
nell’inconscio popolare e lo seducono. Sia che si tratti delle classiche Malvine o di un
frivolo Mundial, persino gli intellettuali hanno con sbigottimento scoperto che il
nazionalismo non è mai morto.
Bearzot ha detto di sentirsi «un soldato». Il Ct, che viene dal Collio goriziano, è il
personaggio meno distante da Vittorio Pozzo, l’uomo che portò la Nazionale a vincere
il Campionato del mondo nel ’34 e nel ’38.
Per condurre la Nazionale, Pozzo raccomandava praticità e buon senso. «Novanta
volte su cento – confessò un giorno – si fa quello che si può, non quello che si vuole».
Lo sta perfettamente anche Bearzot che ha perso per infortunio il suo leader e
consigliere Bettega senza conoscere ancora il grado di forma di Paolo Rossi, tenuto
per due anni in segregazione dalla più indiziaria sentenza dell’intera storia della
giustizia sportiva italiana.
Bearzot è teso perché ama troppo il calcio, «la mia vita» come l’ha definito. Non
smetterebbe mai di parlarne, forse perché il calcio è la miglior metafora
dell’incompiutezza della vita: lo si può sempre perfezionare e non concede mai
controprova. Un paio d’anni fa a Massimo Giacomini confidò: «Pensa quanto avrò da
raccontare quando andrò in pensione. Trent’anni di cose, di uomini, di viaggi, di

paure e di gioie esplosive».
A Vigo, alle cinque della sera, andranno in campo con lui personaggi esagerati ma
non robot. Sono insieme il business e il gioco, lo stress e la seduzione, il talento e il
cuore. «Dobbiamo essere più tranquilli e più cattivi», raccomanda il livornese Marco
Tardelli.
Non è bella Vigo; è bellissima la Galizia, i dintorni di Vigo, con l’oceano che penetra
profondo dentro la terra e la frastaglia in panorami che a tratti potrebbero essere
svedesi. Vigo ha dato alla nostra Nazionale tutto quanto Bearzot s’attendeva: il clima
fresco, lontano dal vento caldo di Barcellona. Nell’aria umida di Vigo si fiuta l’odore
delle sardine e dei tonni, soprattutto al mattino quando i pescherecci rientrano e,
scortati da pasciuti gabbiani, scaricano sulle banchine la vita del mare, tonnellate di
pesce ancora vibrante.
É a Vigo, sull’orlo occidentale d’Europa, che l’Italia dovrà giocarsi la sua reputazione
calcistica con squadre di tre continenti : la Polonia, il Perù, il Camerun. É a Vigo che
un calcio appannato come il nostro, costretto a importare in fretta e furia campioni
stranieri, tenta di reggere l’urto dei polacchi e l’arte dei peruviani, contando sul nerbo
dei suoi difensori, sul mestiere di tutti, sulla seconda nascita di Paolo Rossi,
sull’invenzione di giocatori più portati al gesto che alla fusione.
Non è più tempo di rimpiangere gli assenti o di polemizzare sugli scartati. É soltanto
tempo di far ballare il meglio possibile un pallone tedesco chiamato «Tango». Non
vogliamo «soldati» come Bearzot; ci si accontenta di atleti che diano tutto quanto
hanno in testa e muscolo. Il resto, persino il risultato, è in fondo secondario. Non
credo che la Provvidenza abbia scelto Vigo per la fine del mondo, alle cinque e un
quarto della sera.
Allora, forza Italia, i polacchi e i peruviani sono terrestri come noi.