1981 Giugno 3 Danimarca

1981 Giugno 3 – CON UN PUNTO SIAMO GIA’ IN SPAGNA (Danimarca: una fabbrica di
biondini color-birra)

COPENAGHEN – Ieri sera Federico Sordillo è andato a cena, come tutti noi, a uno die molti ristoranti
di “Tivoli”, la più grande area d’evasione del mondo. luci, pagode, fontane, balli, giochi d’ogni
immaginazione, concerti, teatro, jazz, Strauss, un senso di happening pulito, migliaia di persone senza
l’incubo della ressa. Se ti capita di buttare per terra il pacchetto vuoto delle sigaretti, ti coglie un senso
di vergogna, perché t’accorgi che sei davvero il solo a non usare i cestini per i rifiuti.
E’ la bella Danimarca che ci si immagina sempre, con la sola differenza che, la corona costa al
cambio spropositi di povere, svalutate lire. Una città la si può curare come un giardino, questo
soprattutto balza agli occhi a Copenaghen.
Ma come sono cambiati i tempi per noi italiani. Una volta la prima curiosità di Copenaghen era la
spregiudicatezza da record mondiale dei suoi sex shops. Oggi non ci si fa più caso, l’industria porno
non è più un’attrattiva.
Stremato dalla sciatteria nazionale e dai mille sgorbi sociali che si porta addosso, l’Italiano cerca i
viali, guarda le stradine linde del Tivoli, fa silenziosi paragoni anche se, formalmente parando, è pure
esso cittadino della stessa Europa comunitaria.
Calcio alla mano, c’è sempre stata ulteriore simpatia tra questo Paese e l’Italia. Perché grandi
campioni danesi hanno popolato squadroni e squadrette italiane, scudetti e cronostorie di gol. Dai
fratelli Hansen a Praest nella Juve degli anni ’50, da Pilmark a Soeresen, fino ai due Nielsen degli
anni ’60.
Una tradizione di giocatori essenziali, concreti, seri, che continua e che continuerà. Calcisticamente
parlando, la Danimarca è ancora un serbatoio della Cee. Suoi giocatori sono sparsi ovunque, quasi
sempre con altissimo quoziente di stima.
Arrivando l’altro giorno dall’aeroporto, abbiamo incontrato uno dei consueti paesaggi nordici: decine
di campi di football, l’uno accanto all’altro, con centinaia di ragazzini organizzati dai maestri di
educazione fisica. Un baluginare di testine bionde, il colore della birra Carlsberg o Tuborg, che sono
una gloria nazionale, suppergiù come i delicati animaletti di ceramica.
“Ho uno stopper di 18 anni, che sto curando per bene. Quando sarà pronto, lo voglio far giocare in
Italia, magari alla Juve”.
Lo racconta Mario Astorri, buon giocatore italiano tra gli anni ‘$0 e ’50, che in Danimarca è molto
popolare quale allenatore, avendo vinto anche un paio di scudetti.
Astorri è un tipo singolare. Giocò un anno anche nel Venezia, ai tempi di Loik e Mazzola. E deve
essere stato l’unico calciatore italiano, assieme ad Omar Sivori, che divorziò per protesta dalla Juve,
lo volevano sbattere all’ala destra per far posto al centro a Boniperti. Non accettò e si fece trasferire.
Ora che l’Italia ha riaperto le frontiere, Astorri, ha una gran voglia di mandare da noi qualche
biondino color birra con i piedi di classe. Magari all’ingrata Juve! La Danimarca resta sempre un
vecchio amore bianconero.

Giorgio Lago

COPENAGHEN – Intanto, questi danesi non sono dei postelegrafonici. Se mai lo sono stati, di certo
non lo saranno stasera visto che più di mezza squadra mette assieme giocatori sparsi nei migliori
clubs di tutta Europa.
Tanto per non restare sul vago, Elkjair è il capocannoniere del campionato belga; Eriksen ha fatto
meglio di Kist vincendo la classifica dei goleador in Olanda; a 24 anni. Arnesen è il regista dell’Ajax
e la prossima stagione giocherà Valencia. Aggiungete Simonsen che, nonostante il peso da fringuello
e il vitino di un Franco fava, può sempre inventare guizzi da non dimenticato Mister Europa.

A fare una “squadra” in senso tattico non basta naturalmente sbattere assieme un pugno di campioni,
ma è già qualcosa. Ragion per cui l’Italia dovrà giocare una partita intelligente. Ha dalla sua il
vantaggio di una classifica pre-mondiale già buonissima, senza turbe: se amministra il gioco, non
perde; se subisce il ritmo, può beccare. L’ultimo allenamento è stato una formalità essudativa. A
vederli che si allenano a ranghi sparsi, vestiti un pò alla buona, i calciatori anche più noti sono come
certe signore che si presentano alla porta di casa in vestaglia e ciabatte. Perdono fascino.
I divi si fanno lavoratori del pallone. Qualcuno ci rimette in immagine. Bruno Conti e soprattutto
Selvaggi sembrano persino più piccoli di quanto già siano, una statua da zona equatoriale, due
tappetti.
Sempre più incanutito Bettega porta malissimo i suoi 31 anni: uno che non sappia, lo potrebbe
scambiare per il massaggiatore o il vice di Bearzot, mica per un calciatore in attività anzi l’unico vero
leader, della Juve e della Nazionale, il solo cui viene naturale accreditare un peso “politico” come si
usa dire, allo stesso modo dei Rivera e Mazzola di altre stagioni.
Guardo Antognoni provare alcuni lanci in lungo triangolo con Bearzot e Cesare Maldini, vice del ct.
Antognoni è il capostipite dei piedi buoni di Fulvio Bernardini eppure il vecchio Maldini lo supera
con qualcosa di più felpato, nonostante i 49 anni e una muscolatura in atrofia.
Bello a vedersi, anche tra quattro pedate senza obblighi di sorta, è Giuseppe Dossena, ex-Bologna,
presto regista del Torino. Ha il senso innato del faro. Prima ancora di ricevere il pallone, ha già capito
a chi lo servirà poi, arte questa ce trova sublimazione in Falcao.
Ha ventitré anni Dossena e una souplesse che supera di molto l’età anagrafica. In un campionato
senza registi nostrani, rinverdisce ruoli di un Bulgarelli o di uno Juliano, con in più, rispetto a loro,
una dose di geometria e di dosaggio.
A Copenaghen Bearzot gli preferisce Marini. Marini ha la funzione di un Benetti: alla squadra serve
uno che meni quando serve, che si sacrifichi, che interdisca su chiunque s’avventi verso Zoff.
Nel calcio, sport, collettivo di undici atleti, questi ruoli “oscuri” sono in realtà preziosi, non sono balle
del ct. Ma guardando al Mondiale 1982 (manca soltanto un annetto), uno come Dossena andrebbe
innestato fino in fondo. Soprattutto badando a far gioco, a migliorare la mentalità della squadra, a
istigare un maggior protagonismo. Penso a Tardelli mediano, con Dossena regista e Antognoni
sciolto, senza collare, faccia come crede e quello che può.
Sarebbe un centrocampo senza muli, certamente meno coperto ma, a evitare il suicidio tattico,
basterebbe qualche sortita in meno di Scirea o dei terzini. Del resto, è proprio Bearzot ad aver detto
due cose utili. Che Dossena gli è molto piaciuto, sia a Udine che prima. Che Tardelli è un jolly e sa
fare molte cose. Ergo, anche il mediano.
Preferendo il ct “la squadra che ha vinto”, Dossena sarà stasera in panchina, con il numero 15. Ma
sarà lui il simbolo di un qualcosa che si riproduce nel vivaio italiano, sia pure con fatica e sia pure con
il freno tirato dalla grossa mano di Enzo Bearzot, un riformista che va avanti con lo sguardo girato
all’indietro.
A costo di rischiare lo strabismo, il ct non conosce nulla di meglio per campare sulla panchina più
dura del mondo.

Giorgio Lago.