1981 Agosto 13 Massimo Moratti. Fu il presidentissimo della “Grande Inter”

1981 Agosto, 13 – FU IL PRESIDENTISSIMO DELLA “GRANDE INTER”

MILANO – 6n diLa notizia della morte di Angelo Moratti scuote all’improvviso una città
deserta e vacanziera, saracinesche abbassate, niente traffico, il centro storico è lento
passaggio di turisti sbrindellati, il cielo di piombo piange giù un0afa opprimente. A metà
pomeriggio quando “La Notte” e il “Corriere d’informazione” escono titolando la notizia a
nove colonne in prima pagina, vicino alle edicole si informano capannelli di gente, si
commenta a bassa voce quasi per rispetto, a un tavolino di un bar di via Fatenefratelli è
seduto un tale che legge il giornale, altri quattro lo stanno ad ascoltare con espressione
sgomenta.
Milano ha perduto un grande figlio.
Nato a Somma Lombarda il 5 Novembre 1909, Moratti si era trasferito ancora bambino a
Milano dove suo padre, in piazza Fontana, all’ombra delle guglie del Duomo, mandava avanti
una farmacia.
Carlo Tognoli, sindaco a Milano, ha dichiarato: scompare con Angelo Moratti un personaggio
eccezionale della Milano del dopoguerra, un uomo di enorme ingegno e iniziativa che ha dato
lustro alla nostra città nel solco della migliore tradizione di intraprendenza e professionalità
imprenditoriale. E’ proprio il comune di Milano …-…

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…-… sti, ma anche il nono della stagione ’57-58’. E poi una girandola di allenatori: Campatelli, Frossi,
Ferrero, Carver, Bigogno, ancora Campatelli insieme con Achilli, Cappelli e tra un cambio e l’altro si
ricorre al Pepin Meazza, l’uomo della provvidenza.
Nell’ estate 1957 Moratti pesca un giovanotto di baffo nero e di occhio malinconico in Argenitna,
vent’anni, centravanti della nazionale biancoceleste, il suo nome è Antonio Valentin Angelillo. Gli
darà gioie immense (trentatré gol in un campionato) e amarezze profonde.
La “Grande Inter” nasce nel 1960 quando Moratti chiama da Barcellona l’allenatore che fa al caso
dell’Inter, Helenio Herrera, e dà una guida illuminata alla società assicurandosi un inimitabile
segretario-manager come Italo Allodi. Tramonta la stella di Angelillo, il primo campionato di Herrera
si conclude in polemica per la nota decisione della Caf di far ripetere un Juve-Inter che era stato
sospeso per invasione pacifica del campo di Torino. I nerazzurri finiscono al terzo posto a cinque
punti dalla stessa Juve.
L’attesa dello scudetto diventa snervante, Moratti – da uomo vincente a tutti i libelli- non riesce ad
accettare la situazione-. Nell’estate 1961 realizza un colpo sensazionale: l’acquisto di Luis Suarez,
mezz’ala della nazionalespagnola e del Barcellona. Non bada a spese, sono 260 milioni in contanti.
Suarez numero 10, quel …-…

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Era il mecenate. Angelo Moratti fu il Magnifico del calcio degli anni ’60.

Il mecenatismo dei borghesi è particolarmente prodigo perché vive il benessere senza l’angoscia di
ritornare, perdendolo, alla fame. Fosse da acquistare un asso quale Luis Suarez o da aiutare la povera
gente, la liquidità di Moratti era sempre felice.
Era figlio del suo tempo e di nessun altro. Stava nel boom economico come dentro la placenta
materna. Il suo primo investimento era stato una fabbricchetta di bottoni, ma era segnato nel destino
che l’approdo dovesse essere il petrolio, l’oro nero, il moltiplicatore di denaro, la energia del secolo.
Fu mecenate perché generoso d’animo non perché miliardario. I soldi erano soltanto l’arnese
necessario a liberarlo dai desideri impossibili.
“E’ l’unico presidente italiano – mi ricordava di recente Italo Allodi- che nel 1968 lasciò una società,
l’Inter, tirando uno striscio sopra un credito di un miliardo!. Un miliardo di allora era quattro di oggi.
Elegante, belle cravatte, inseparabile da una sigaretta di forte aroma, celebrava scudetti e coppe
facendo festa nella villa di Imbersago, anche se erano le tribune pigiate di San Siro a farlo sentire
totalmente soddisfatto. Un mecenate senza pubblico è un tribuno senza popolo.
Ogni mattina passava dal barbiere, a due passi da Piazza Fontana. Quattro chiacchiere sull’Inter erano
il suo aperitivo come ogni “bauscia” che si rispetti.
Affabile, incapace di stare sulle sue, con l’Inter Moratti era sempre in terra di missione, in tasca
teneva distintivi nero-azzurri come fossero santini. La gente vedeva il petroliere, lui era un tifoso;
potendo, avrebbe convertito all’ Inter anche Gianni Rivera.
A Estoril, sulla costa atlantica del Portogallo, un ragazzino a piedi scalzi lo convinse a risalire in
albergo per ottenere una bandierina e qualche cartolina con Sandro Mazzola. Non c’è mecenate di uno
sport popolare senza una dose di levità interiore.
Presentando in tutta Europa l’Inter di Herrera, Moratti esportava anche la neo-opulenza di una società
italiana uscita dai macelli della guerra e fattasi interventista nei consumi.
Il suo Herrera era il tecnico più pagato al mondo. I suoi campioni firmavano contratti in bianco, come
si usava soltanto alla Juve degli Agnelli. La lira pigliava l?oscar come moneta europea, non c’era
ragione di non esibirla.
Il club Moratti era una nuvola di figli ricchi e di ricchi amici dei figli, partivano da Montenapoleone e
andavano al calcio come una famiglia numerosa il giorno di festa. Il tifo e le passioni popolari non
sono mai un rito solitario.
Nessun presidente instaurò con il suo pubblico un rapporto tanto voluminoso, forse perché la gente
capiva che in emozione Moratti pagava molto. Si abituò qualche volta a vincere, mai a perdere.
Con l’Inter Morati mise assieme due fenomeni contrari: il mecenatismo e la organizzazione:
sentimento e bilancio; il gran cuore lombardo e l’efficienza. La “Grande Inter” era lui, con un braccio
tecnico (Herrera) e un braccio manageriale (Allodi). In via Dante 7, alla sede dell’Inter, le poltroncine
dei consiglieri della società riposarono a lungo nel cellophane.
La sua era una presidenza di staff, poche e sentite parole fra quattro mura senza orecchie. Il resto non
decideva, era rumore. Nel suo studio di via Serbelloni, petrolio e calcio producevano una stranissima
mistura: il metodo per i due “rami” era lo stesso: a separarli era il divertimento.
Nella migliore tradizione dei mecenati, Moratti era miliardario, generoso, alla mano e di palato fino.
Se Agnelli prediligeva Sivori e Haller, Moratti stravedeva per il “sinistro di Dio” di Mariolino Corso.
“E’ migliore di Suarez – mi diceva- perché lo spagnolo lancia il compagno a velocità standard. Corso

gli regola anche lo scatto: a un lento serve la palla lenta, a un rapido, rapida”.
Angelo Moratti si porta via un’epoca d’Italia più che del calcio in sé, essendo il potere id
rappresentazione tipico degli uomini di vaglia. Forse, è stato tutto quanto doveva essere.

Giorgio Lago