1980 ottobre 27 L’Inter s’inginocchia a Falcao. La nazionale ritrova il Torino

1980 ottobre 27 – L’Inter s’inginocchia a Falcao – La nazionale ritrova il Torino

Dall’inviato
UDINE – E adesso caro Sandrino Mazzola? E adesso sviolinatori di tutta Italia? Ero
stato l’altra domenica a Firenze e m’era parso di assistere a una partitaorrenda tra
un’Inter mediocre e una Fiorentina di molto scarsa personalità.
Con sommo stupore mi toccò, pochi minuti dopo la fine, di sentire da Mazzola che si
era invece trattato di una buona partita, dove si era anzi fratta apprezzare la «fantasia»
di Beccalossi! Il mio stupore crebbe il giorno dopo nel leggere qua e là che, in fondo,
quello 0-0 era di normalissimo livello.
Ora che l’Inter ha vinto solo di straforo in Coppa Campioni a Nantes e s’è fatta
violentare quattro volte dalla Roma a San Siro, che cosa diranno lorsignori? Faranno
autocritica, naturalmente, e tutto continuerà come prima, nella cecità estetica più
assoluta, nel conformismo, nell’abitudine al brutto.
In fondo, quello dell’autocritica è il vero sport nazionale, la specialità nella quale
nessuno batte l’Italia. Da Lama a Chiaromonte, dal sindacato ai partiti, dal terrorismo
al caso Fiat, tutti cavalcano prima i loro tigrotti e poi fanno autocritica. É il rito del
«dopo», tutti ben stretti al gioco delle parti, pentiti e inamovibili.
Il costume di un Paese è di tutti, perché è vita pubblica. Così nella politica, così nel
calcio. É incredibile come, dal Parlamento allo stadio, si corra lo stesso pericolo, di
distacco dalla realtà. La gente vede brutto, lorsignori vedono bello. Sandro Mazzola
passa per un «politico»: forse per questa sua adattabilità a difendere gli scarsi valori
tecnici della corporazione cui appartiene? Per la stima che ho di lui, spero proprio che
prima o poi mi smentirà, ma è certo che, se all’Inter avessero letto con più sincerità e
umiltà lo 0-0 «ai quattro formaggi» di Firenze, probabilmente Niels Liedholm non
sarebbe riuscito ieri sera a servire in tavola a San Siro un clamorosissimo abbacchio
alla romana.
Non so chi vincerà lo scudetto ’81 in un campionato che, essendo il primo dell’era
post-scommesse, si rivela particolarmente sconclusionato. L’Inter rimane la candidata
numero uno per mezzi, compattezza e parco giocatori. Ma il simultaneo eclissarsi
della Juve dimostra che questo campionato è ateo. Non ha divinità né piccole né
grandi cui rivolgere la fede dello spettacolo.
Questo calcio è oggi una grande officina, dove finiranno per emergere soltanto i
tecnici capaci di qualche laboriosa idea, buona per l’oggi e il domani. Sono vent’anni,
dal catenaccio di Rocco, dalla geometria di Gipo Viani e dal contropiede di Helenio
Herrera, che in Italia non s’inventa più nulla. Al massimo, si copia.
E in ciò, ha ragione il collega Giulio Turrini, il più bravo è Gigi Radice che al suo
Bologna ha impartito lezioni di pressing prese dal calcio nordico, omologo a lui che
da sempre passa per «il tedesco».
A Udine s’è capito immediatamente perché il Bologna abbia in pratica già fatto 9
punti, tanti quanti la Roma, sola soletta in testa alla classifica. É una squadra dove si
legge profondissima la mano del tecnico. Una squadra che è un apologo tattico. Si
dispone tutta assieme, a distanze cortissime, muovendosi a piovra, tanto da esaltare
per abilità di smarrimento anche giocatori normalissimi. Da questa base, riapre poi un
bel contropiede a ventaglio, con un Dossena che serve quanto un neo-Rivera, e il
brasiliano Eneas a concludere di classe. É vero, Eneas ha sbagliato un gol da
apprendista, ma ha fatto l’1-0 fintato il portiere con un passo doppio che riesce così
naturale soltanto ai figli del samba.
L’Udinese ha faticato come una bestia per pareggiare, senza d’altronde frodare
nessuno. Uno stanco sinistro acrobatico di Pradella ha trovato sulla propria strada un

portiere-gruviera, ma l’1-1- era il risultato più motivato che premiava nel Bologna la
squadra migliore e nell’Udinese un’ispirazione ritrovata, l’impronta digitale di un
club vivo.
Con quattro giocatori comprati e sei giocatori ceduti, l’Udinese ha fatto al mercato
d’ottobre la sua seconda rivoluzione. E, mezz’ora prima della partita, Teo Sanson in
persona ha risolto ogni amarezza di Nick Zanone, facendogli firmare il contratto.
Da Sanson a Dal Cin, da consiglio d’amministrazione a Giagnoni, questa non è una
società in crisi. É soltanto una squadra con dei problemi. Ventimila paganti e una
ottobrata di rara luminosità hanno suggerito ieri che il Friuli del calcio non è ancora
un salice piangente.