1980 gennaio 7 Chi ha paura dello straniero?

1980 gennaio 7 – Chi ha paura dello straniero?
Venerdì si decide

Venerdì prossimo a Milano
il calcio professionistico dovrà dire sì o no
all’importazione di stranieri. Se i presidenti di A e B voteranno per il sì, è pressoché
scontato che la Federazione darà poi il placet a tesserare uno straniero per ognuna
delle 36 società e che il mercato sarà quello mondiale, non soltanto l’europeo.
In questi ultimi anni il movimento d’opinione favorevole alla riapertura delle frontiere
si è fatto più che mai massiccio, anche sulla scorta dell’innegabile ritrosia delle
mamme italiane a rifornire il vivaio di assi, i cosiddetti talenti naturali, gente quale i
Rivera o i Corso o i Causio cui basta insegnare a correre perché il resto se lo portano
nei piedi per virtù genetica inconsapevole. Come avere i capelli biondi anziché neri, la
pressione bassa anziché sostenuta.
Ieri si è concluso il girone d’andata di uno dei più squallidi campionati d’Italia, il che
parrebbe dover rafforzare la domanda di classe d’emergenza. Ma, paradossalmente, gli
ultimi giorni hanno gonfiato qualche perplessità. Con coerenza tipicamente italiana,
c’è persino chi spera nei misteri dello scrutinio segreto pur di vedere uscire un nuovo,
storico, definitivo no autarchico.
Non c’è una seria e spregiudicata valutazione del problema. Emergono invece umori,
luoghi comuni, rancori da anni ’30, moralismi da salotto radical-chic, miopi sguardi
alla classifica del momento.
Di tale insulso magma non val la pena di occuparsi. C’è tuttavia qualche posizione che
merita attenzione, sia pure per controbatterla. Il neo-convertito al no Fraizzoli ha
detto: “Abbiamo perso anni fa il momento. Ora non è più tempo”. Ha aggiunto lo
stimato manager del Torino Bonetto: “Rinunciamo allo straniero, ma chiediamo la
garanzia di avere a disposizione più campi per allevare i giovani”. Spostando il
problema sul piano del costume, Gianni Brera sostiene che “importare stranieri non è
morale”.
Ha ragione Fraizzoli: che si sia perso del tempo, in termini economici e spettacolari, è
sacrosanto. Risulta tuttavia difficile come un campione per squadra possa diventare
ora superfluo, addirittura controproducente, in un calcio dove calano gli spettatori e
dove si avverte il rischio di trasformare lo spettatore pagante in telespettatore.
L’ingaggio di una stella va visto da investimento e da incentivo, non quale sfizio o
pazzia.
In un paese come il nostro dove, tra stipendi e premi e ingaggi, si pagano anche 60-70
milioni all’anno degli autentici brocchi, è perlomeno singolare scoprire che qualche
dirigente trova improvvisamente scandalosa la borsa degli ingaggi europei.
Non è nemmeno plausibile barattare una scelta del più professionistico degli sport
(oltre un milione di tesserati) con “più campi”, secondo l’idea di Bonetto. Straniero o
non straniero, i campi per i giovani, gli impianti di base per tutti gli sport, strutture più
disseminate in periferia e nelle aree urbane, tutto ciò deve in ogni caso rientrare nella
politica sportiva dello Stato. Attraverso le entrate del Totocalcio, lo Stato ha già
trovato il modo di non cacciare una lira del suo bilancio: è ora che trovi almeno la
disponibilità culturale ad occuparsi dello sport per tutti, come accade all’Est e
all’Ovest, nei Paesi in via di sviluppo e nei paesi industrializzati. Tra questi ultimi
siamo nonostante tutto ben piazzati, lo ha di recente sottolineato anche Amintore
Fanfani nell’opporsi almeno in parte a tempi di Cassandre.
Importare uno straniero per club professionistico non è nemmeno immorale, l’etica è
un’altra cosa come chiarì benissimo Nicolò Machiavelli. Gli Usa danno il grano del
Kansas all’Urss, c’è scambio di tecnologia tra potenze che si confrontano. L’Europa si

è data l’avvenire nel libero scambio di uomini e merci. Le lire si sono fatte verdi,
perdendo la nazionalità a vantaggio della produttività. Le frontiere lasciano oggi
passare più di quanto non separino.
Noi italiani poi siamo degli specialisti nell’import-export delle persone. Milioni di
emigrati, città “italiane” all’estero, nel bene e nel male abbiamo messo radici ovunque.
Il turismo straniero ci ha portato quest’anno 18 milioni di ospiti, settemila miliardi
ufficialmente calcolati di utile. Ed esportiamo tanto in beni della cosiddetta “qualità di
vita”, dalla cucina ai vini, dalle scarpe ai tessuti, che all’estero si parla di “secondo
Rinascimento italiano”.
Il mondo in cui viviamo, l’Italia in cui viviamo, sono questi. Perciò trovo romantico
fino al pathos nazionalistico volersi rifare la verginità del tutto “made in Italy”
proibendo a una trentina di pallonari di fare negli stadi quello che la disco-music fa
con il mercato musicale o la Parisi con i ballerini di Fantastico. Centinaia di miliardi
escono ogni anno per importare whisky e non risulta che ottime grappe nostrane
riescano a evitare la fuga di capitali. Vogliamo trattare lo sport di un milione di
tesserati e di 28 milioni di telespettatori almeno alla stregua di un pub?