1980 agosto 4 Chiusa l’Olimpiade con il solito sfarzo

1980 agosto 4 – Chiusa l’Olimpiade con il solito sfarzo
Si spegne una fiamma che non s’è mai accesa veramente

Dall’inviato
MOSCA – Un giorno, alla consueta conferenza-stampa, si alza un giornalista straniero
e chiede a Vladimiro Popov: «Di che sesso è Misha, maschio o femmina?».
Attimo di sincero stupore di Popov che senza fretta risponde: «È un ragazzo».
Per la prima Olimpiade comunista, Mosca aveva scelto quale mascotte l’orsetto
sorridente e cordiale delle favole popolari russe. Il boicottaggio gli ha ridato artigli,
gli stessi dei manifesti elettorali del nostro 1948, quando l’Italia veniva rappresentata
come un boccone pronto a finire tra i denti di Stalin, l’orso della realtà sovietica.
L’Olimpiade di Mosca è diventata strumento di guerra fredda, perché né
l’Afghanistan né Sacharov erano in altro modo alla portata del fronte del «boycott». Il
boicottaggio testimonia l’impotenza della politica di fronte all’espansionismo e
all’amnesia sui diritti umani. Si è ricorsi alla proiezione massima dello show sportivo
per ottenere un’eco purchessia, un antidoto al silenzio, un gesto che servisse a non
mettere troppo vistosamente a nudo la paralisi della diplomazia bipolare.
Paradossalmente, proprio il boicottaggio ha dimostrato la forza propagandistica delle
Olimpiadi, che hanno ottenuto udienza alla stregua di un atto politico integrale. Si
può discutere all’infinito se il loro uso protestatario sia servito o meno, ma chi vi ha
fatto ricorso senza dubbio ne sublimava la presa emotiva. Un caso di coscienza.
Nel 1936 a Berlino, Hitler si era in un primo momento rifiutato di ospitare le
Olimpiadi, «indegno festival dominato dagli ebrei», e solo più tardi si era convinto
che sarebbero magnificamente servite a rafforzare la quercia nazista. Il fronte del
boicottaggio ha temuto la stessa logica e, insieme, se ne è servito.
Ha temuto che l’URSS usasse l’ospitalità olimpica da avallo alla sua politica estera.
Se ne è servito per politicizzare lo sport e farne messaggio di valori d’emergenza.
Suo malgrado, l’Olimpiade è stata espropriata. Avevano provato i terroristi di
«Settembre nero» nel ’72 a Monaco, avevano insistito i Paesi africani non andando a
Montreal nel ’76: Carter ha ratificato a livello di grandi potenze che non esistono né
zone franche né ideali. La pace e la guerra attraversavano il mondo a occhi chiusi,
sonnambule dell’uomo totale.
Ieri sera, alle 20.58 di Mosca, gruppi i bambine con panieri di fiori hanno lasciato lo
stadio Lenin: l’Olimpiade chiudeva trasferendosi simbolicamente a Los Angeles
1984, non negli USA. Sul pennone è salita la bandiera della città californiana, non la
bandiera americana. Anche all’ultimo minuto dei Giochi, Mosca ratificava l’incidente
della storia.
Ma già l’Olimpiade è superata. I commentatori politici analizzano sulle prime pagine
il «dopo-Olimpiadi». Si prova a capire se la partecipazione sia stata un «fatale
errore», come lo definì lo scrittore dissidente Vladimir Maksimov, direttore della
rivista Kontinent. O se il boicottaggio sia diventato un «fiasco» come insistono i
sovietici nelle dichiarazioni ufficiali.
C’è da chiarire anche se il boicottaggio abbia isolato psicologicamente l’URSS o se,
per reazione, abbia rinfocolato nei sovietici l’arcaico senso d’accerchiamento.
Mi dice un giornalista dell’agenzia ufficiale di stampa sovietica Novosti: «A noi non
manca il grano per fare il pane, ma quello per allevare il bestiame. Quando Carter
ha messo l’embargo all’invio di grano americano in URSS, i nostri contadini sono
andati nei boschi a tagliare il fieno come non facevano più. Ora non abbiamo più
bisogno del grano americano, anche perché ce lo sta vendendo il Canada.
L’Olimpiade è come il grano, ha provocato in noi russi un sentimento di solidarietà

nazionale, come dire che dobbiamo fare ancora dal soli».
C’è propaganda in ciò, ma non tutta propaganda. L’Olimpiade di Mosca è transitata
nel punto di sofferenza delle due superpotenze, allo stesso tempo complementari e
avverse, prestandosi ad essere tormentata e monca, simbolo ineccepibile di tutte le
paure e di tutte le speranze.
La diplomazia delle partite di ping-pong servì nell’era di Nixon quale ingenuo
pretesto d’intesa fra USA e Cina. L’Olimpiade di Mosca è servita a spaccare. Ma
adesso è ancora lo sport a mettere insieme tasselli di distensione. Domani a Roma il
Golden Gala d’atletica ritroverà gli uni accanto agli altri 100 atleti americani e 35
sovietici, compresi una decina di freschissimi campioni olimpici. Duecento milioni
ben investiti da Primo Nebiolo, presidente dell’atletica italiana, nel rompere a botta
calda il ghiaccio su Mosca.
L’Olimpiade spaccata ha fatto 36 record mondiali e 74 olimpici. Con americani,
canadesi, kenioti, tedeschi e giapponesi, con la grande novità dei cinesi, sarebbe stata
un’Olimpiade tecnicamente enorme. Lo spettacolo, la tecnica e l’universalità hanno
pagato un prezzo altissimo. La fiaccola si spegne a Mosca senza essersi mai
veramente incendiata. Ombre lunghe, da Kabul a Gorkij, incombono quali irrisolti
presagi.