1979 ottobre 2 Io, Chiarugi

1979 ottobre 2 – Io, Chiarugi – L’individualista

Dicono a Livorno: “Meglio un morto in casa che un pisano
all’uscio”. A proprie spese lo deve aver pensato anche Luciano
Chiarugi, pisano di Ponsacco, quando la scorsa estate avvertì a 32
anni il fastidioso isolamento del dimenticatoio.
Nemmeno per la misera cifra di 50 milioni tutto compreso, ci fu una
squadra in Italia pronta a restituire un pollice di stima ai suoi
dribbling e alle sue stravaganze d’area di rigore: snobbato
dall’intera serie A, scordato dall’Udinese che pur non se la passa
allegra a proposito di punte, ignorato dalla Fiorentina in cui nacque
anche se il referendum di un quotidiano locale aveva raccolto il 95
per cento dei voti favorevoli ad un ritorno del vecchio, discusso
“cavallo pazzo”.
Come giocatore, Chiarugi rischiava d’essere già una cartellina
d’archivio. Semmai, pareva destinato a lasciare un’impronta
soltanto attraverso il polemico “ismo” rifilatogli un giorno a Parma
da Alberto Michelotti, arbitro d’essenza, refrattario ai sospetti
esorcismi dei giocatori-ballerini:
lo
chiamò Michelotti, per rifiutare cascatori e simulatori, pesi leggeri e
ambigui.
Ora Chiarugi ha ritrovato il campo, raccomandato soltanto due
settimane fa al Bologna da Beppe Savoldi, goleador di buoncuore
che scrive e canta canzoni per bambini. Alla sua prima mezza
partita, 50 minuti con il 14 sulla schiena, Chiarugi ha servito l’1-0 a
Savoldi e realizzato il 2-1: Roma lo ha guardato l’altro ieri come si
guarda a un reduce della grande guerra scoperto a impugnare
magnificamente la P. 38.
E’ la rivincita della mela marcia sul perbenismo del football. “Mela
marcia” fu negli anni ’60 la definizione riservata da Helenio Herrera
a Omar Sivori per impedirgli di approdare alla sua Inter di “mele
buone”, insistette HH. E’ la rivincita di un individualista, di un
arzigogolo dello schema che tuttavia sfrutta la decadenza del
calcio nostrano per lievitare il suo viale del tramonto. In un
campionato con l’abat-jour, anche le foglie secche hanno tutto il
tempo di toccare terra senza affanno.
Piedi molto piccoli, abituati a danzare prima di esplodere lo scatto,
Chiarugi è in possesso di un tiro nitido e però i suoi 68 chili non
l’hanno mai aiutato ad affrontare la fifa del tackle, il contatto sui
bulloni, il fiato sputato addosso dal terzino e quel gomito maligno a
dissuadere sullo sterno la voglia del gol. Vigessero nel calcio le

il “chiarugismo” appunto,

regole del basket, Chiarugi sarebbe risultato quasi un Pelé:
premuto fisicamente, dissuaso sulla potenza, ha invece sprecato
molto della sua carriera anche perché gli è mancata la classe e
l’umiltà di guardare al gioco di undici piuttosto che al suo specchio
di narciso: l’avversario, lì vivo soltanto per regalargli il sogno di
dribblare.
Ma, nonostante i suoi sogni spesso rotti, ritrovare in campo
Luciano Chiarugi di Ponsacco fa sempre piacere. E’ uno dei pochi
che smentisce l’appiattimento dei valori e dei modelli: meglio un
anticonformista che un brocco.