1978 settembre 19 Gianni Brera spiega la sua rinuncia: “Ero stanco di fare l’imbecille”

1978 settembre 19 – Gianni Brera spiega la sua rinuncia: “Ero stanco di fare
l’imbecille”

Gianni Brera è sempre stato discusso, venerato quanto una icona o detestato da un
fronte del ripudio che ne rifiuta tutto: lo stile, la provocazione, il lessico, il
pragmatismo tattico (leggi difensivismo). E, ancora, il serrato ricorso al paradosso, la
profanazione dei miti nazionali e quel grande grigio cielo in Lombardia che sovrasta
tutte le sue pagine di giornalista e scrittore.
Che, in epoche diverse, si dedichi all’abatino Rivera o al suo personalissimo
centravanti Facchetti, alla precarietà della razza mediterranea o al sarcasmo sulla ex
“redazione borbonica” del Corriere, Gianni Brera ha sempre rappresentato una sfida o,
quantomeno, un brusco stimolo per lo spettatore medio del calcio italiano.
Brera non è scampato al suo “personaggio” nemmeno quando, l’anno scorso, accettò
di farsi frugare dalla telecamera, commentando la serie A alla Domenica Sportiva.
Brera non può affidarsi all’ovvio per la banalissima ragione che ovvio non è: né può,
di fronte a milioni di telespettatori, rischiare la libertà di un “arcimatto” delle celebri
ultime parole del Guerin Sportivo di qualche anno fa, dove Brera non conosceva
gabbie di nessun genere se non quella del proprio istinto.
Purosangue costretto a trottare, Brera deve in qualche misura aver perso per strada
qualcosa di sé, in mero sforzo di adattamento al mass-media televisivo. Ma Brera
rivela altri meccanismi, probabilmente decisivi nel determinare l’impaccio prima e il
rigetto poi della sua esperienza a 21 pollici.
Quando ieri l’ho chiamato al telefono a Milano, non ho fatto che registrare un
monologo mai tanto privo di calcolo e di diplomazia. Il Brera della Domenica
Sportiva non era il “vero” Brera, il Brera che spiega come funzionò la Domenica
Sportiva è il verissimo Brera. Ascoltiamolo, testualmente, premettendo che Tito
Stagno è oggi il responsabile del pool sportivo: “Tito Stagno è un bravo collega –
esordisce Brera – e un uomo sulla cui lealtà non è lecito dubitare. Riteneva
ingenuamente di dare con me un po’ di fosforo a una rubrica che è un non-senso e
un’incongruenza”.
– Perché?
“Perché unisce alle urgenze di un quotidiano di informazione le prerogative di un
settimanale. Prepara a tavolino argomenti ai quali pretende di aggiungere l’apporto
immediato della cronaca. Se un povero cristo
investe parecchi soldi per
prefabbricare sei piccole monografie trova poi umanissimi ostacoli e ha pudore a
farne saltare tre perché l’attualità obbligherebbe a maggior spazio”.
– Un’incongruenza che ha stritolato il tempo di Brera…
“Ho capito presto che avevano sempre più fretta, mi raccomando, cinque minuti, non
più di cinque minuti. Una sola volta mi lasciarono disquisire per 18 minuti, quando
venne in studio Bettega, ma allora mi tolsero la conclusione e questo gesto fu
nient’altro che un sabotaggio. Cinque minuti, hai capito amico? Per la tv ero
diventato una battona, ero “Anita-fa-presto”, un prostituta di porta Vigentina
obbligata per povero mestiere a incontri molto frettolosi”.
– Brera tende ad approfondire le cose: non dev’essere perciò stata una rubrica molto
piacevole.
“Non farmi bestemmiare! Mi veniva perfino da ridere di fronte a tanta incongruenza,
sapendo anche di rubare i quattrini. Ma non sono affatto venuto via in odio a quelli
della Tv: in Argentina, Tito Stagno mi aiutava persino, dandomi notizie che la mia
molto individualista équipe non mi passava. No, me ne sono andato perché non mi
andava di star lì a fare l’imbecille”.

- Sia pure in maniera un poco diversa, toccherà ora a Rocco.
“Mi fa piacere perché Rocco è un amico e uno che vede il calcio come me. Se ci vede
ancora…, tuttavia, perché stiamo invecchiando caro amico e ho visto Rocco
invecchiare più di me…”.
– C’è insomma stata parecchia improvvisazione nel gestire il Brera televisivo?
“Una volta c’era l’inchiesta sulla Comaneci, una volta l’incontro con Stenmark, e io
mi trovavo a contare i cinque minuti quando avrei voluto argomentare un quarto
d’ora per convincere il pubblico della mie tesi e accontentare i tifosi”.
– In che senso?
“I tifosi vogliono che tu parli della loro squadra e, se li escludi, s’indignano. Giù
lettere, lei non parla mai del Napoli: ma cosa devo parlare, che devo dire del Napoli
che fa piangere e poi non me ne frega niente. Lei non ha detto una parola sul Foggia,
e allora inventano che sei un razzista, e invece non sono razzista ma soltanto uno
storico, un cronista che guarda ai fatti. Razzista?! Ogni delitto commesso a Milano,
quattro pugnalate alla suocera, tre bambini maciullati e la moglie sventrata con la
biro, solerti biografi segnalano che il tizio era nato in una frazione di Sant’Eulal… di
Catanzaro o giù di lì. Capito?”.
– Quindi, non c’era verso di uscirne…
“Non ne potevo più di tener su quell’incongruo giornalistico dove devi buttar via tra
record mondiali perché ci sono cinque spezzoni prefabbricati da smaltire”.
– Ma non c’è, oltre a questo, anche un problema di linguaggio, espressivo?
“Sì, alla gente non interessa quel che si dice, ma uno bravissimo a parlare. Non bada
ai contenuti ma ai suoni. Escludo che, di una tiritera di De Nicola, afferrino la
profondità del de iure, ma ne applaudono l’eloquenza, la modulazione. Lo dicono
studi sulla razza mediterranea, non la domenica sportiva. Buon lavoro amico, ci
vediamo a Torino, con la Nazionale”.
Gianni Brera si congeda così dai telespettatori, senza eufemismi, con vituperata
fedeltà al paìs: la sincerità è plebea, come la sua.