1976 marzo 2 Lo spettacolo

1976 marzo 2 – Lo spettacolo

Alla fine di Inter-Torino, domenica scorsa a San Siro, un ragazzo milanese sui 16-17 anni si ferma
incuriosito a guardare i giornalisti che lavorano nella saletta-stampa. Gli chiedo se ha visto la
partita: “non sono riuscito a procurarmi il biglietto”, risponde con aria rammaricata.

C’erano oltre 70 mila persone, gli faccio osservare, ma lo stadio non era esaurito: agli sportelli
avresti dovuto trovare almeno le gradinate.

“No, – racconta – già mezz’ora prima della partita avevano chiuso tutto. Non restavano che i
bagarini e quelli facevano pagare troppo”.

Ma, obbietto io, qualche minuto dopo l’inizio della partita i bagarini li avranno pure mollati i
biglietti invenduti.

“Macché, – replica sicuro il ragazzo – o cinquemila lire o niente biglietto, preferiscono non
venderli”.

La cosa potrà sembrare a molti lettori assurda e antieconomica per gli stessi bagarini, ma è così: il
buon guadagno e l’organizzazione dello strozzinaggio consentono un controllo spietato della
domanda, fino al punto di poter “dare una lezione” per l’avvenire a chi tenta di forzare l’offerta
giocando sugli ultimi minuti di attesa, magari a partita già iniziata.

Ricattato da quelle cinquemila lire, il ragazzo ha dovuto girare le spalle a San Siro e dirigersi, lì a
circa 300 metri, verso il nuovissimo Palasport dove era in programma una riunione di atletica
indoor. E forse è stato un affare per lui: non tanto per le lire risparmiate ma perché, trovandosi a San
Siro, avrebbe potuto assistere ad uno dei gesti più turpi del tifo contemporaneo.

Dopo il gol di Pavone, dalla gradinata alta un manipolo di cosiddetti ultras con bardatura granata ha
fatto scendere sulla sottostante tribuna liquidi organici, sputi e altre piacevolezze. “Dobbiamo
domandare scusa” ha detto Giovanni Arpino su “La stampa” di Torino sentendosi anche
personalmente umiliato da tanta teppaglia.

Le facce di questa gente sono tutte uguali, torve, volgari, becere, spiritate. Anche se all’ombra del
Torino i precedenti non mancano, quelle facce appartengono un pò a tutti. Non è gente che ama una
squadra, ma gente che odia il resto del mondo, soprattutto l’arbitro, gli avversari e lo sport. Le idee
non fanno parte del loro patrimonio genetico, ridotto invece all’insulto, al vivere “contro”.

Non sono figli del calcio ma emblemi di una società violenta che teme di abbinare libertà e
sicurezza e dunque, per non arginare la prima, rinuncia anche alla seconda. A Londra o Mosca nella
patria dei “liberals” o dei soviet, i tutori dell’ordine intervengono con durezza come mi è capitato di
assistere personalmente. A Milano, l’astensione, la scelta del male minore, il decantamento e chi ha
avuto ha avuto.

Pensiamo a che cosa può essere ridotta una partita dello sport più popolare: una lotta per avere il
biglietto, una lotta per sfuggire alla violenza. Non servono più le tavole rotonde, i dibattiti, le litanie
e le mille ipocrisie di chi più parla e meno agisce.

Pensiamo a quel ragazzo milanese, stretto tra la speculazione e la volgarità. È questo lo spettacolo
cui mira la dodicesima industria italiana, cioè il calcio degli oltre duecento miliardi di “fatturato”?