1976 Dicembre 19 Davis all’Italia

1976 Dicembre 19 – Davis all’Italia

“ Andreotti vacce tè a giocà con Pinochet” era uno degli slogan recentemente gridati per le strade di
Roma nel tentativo di indurre il governo a dire no alla trasferta in Cile. Adesso, la vittoria di
Santiago non può che contribuire a disperdere una parte del tossico accumulato negli ultimi mesi:
dopo 64 edizioni è la prima volta che l’Italia porta a casa la mitica insalatiera che un eccentrico
americano di St Luis , il dott. Dwight Davis, fece fondere all’inizio del secolo con 217 once
d’argento.

Hanno vinto il nerbo di Barazzutti, il tocco in più di Panatta, la maestria di Bertolucci sui rimbalzi,
la silenziosa disponibilità di Zugarelli. Ha vinto una squadra, ha vinto una scuola. La scuola di
Mario Belardinelli che cominciò a costruire nel ’66 questo poker di tennisti oggi tra i primi al
mondo.

Ha vinto anche il fair play di Nicola Pietrangeli e la sua sensibilità da regista dai bordi di campo.

Questa troupe fa trazione su uno sport che, stando alla cifra del neopresidente della federazione
Galgani, conta in Italia su un milione di praticanti. Il tennis non è ancora popolare ( e forse non lo
sarà mai perché bastano due persone a occupare…un campo), ma sta diffondendosi, chiede
impianti, attiva i circoli, investe in pubblicità, stimola gli affari dell’industria dell’abbigliamento e
degli attrezzi.

Tra gli anni Trenta e Quaranta, il tennis fu in Italia uno sport praticato dall’alta borghesia e coltivato
dal fascismo anche se una città di un milione di abitanti come Napoli aveva un solo circolo.
L’hobby di Mussolini è diventato oggi lo stesso hobby di Berlinguer. Non più agganciato ad una
oligarchia, il tennis acquista un sapore anche ecologico, sollecita l’attualissimo desiderio di opporsi
alla sedentarietà dell’uomo urbano.

L’esito della Coppa Davis è un fatto sportivo; i suoi echi restano politici perché tali furono gli
atteggiamenti dell’opinione pubblica e dei partiti italiani: favorevoli alla trasferta come la
democrazia cristiana o i repubblicani; di dissenso da parte delle sinistre. Non ci sono buoni e cattivi,
la dialettica facendo costituzionalmente parte della democrazia. Ciò che noi abbiamo sempre
respinto – prima e dopo il 3-0 – è la strumentalizzazione di chi, operando in malafede, sente la
libertà di opinione come un insopportabile istituto.

La faziosità, il “visto da destra” e il “visto da sinistra” di Giovanni Guareschi, cresce come la
gramigna. Lo stesso Pietrangeli con una delle sue provocatorie affermazioni, ha detto l’altra sera:
“Ho un profondo rispetto per le opinioni contrarie alle mie, come quelle espresse per esempio da un
Giancarlo Pajetta, ma quelli che non sopporto sono i sozzoni, i demagoghi. E’mai possibile che noi
si sia dovuti partire da Fiumicino quasi travestiti, alla chetichella, con i baffi finti?”.

Mentre la Coppa Davis ascolta a Santiago un meritatissimo inno di Mameli, i giornali riempiono
pagine e pagine sullo scambio tra il comunista cileno Corvalan e l’intellettuale sovietico Bukovsky.
Non so quali riflessioni abbia suscitato in Europa questa transazione. Qui, dal paese del golpe, colgo
il tormentoso segno di un’uguale oppressione. Corvalan e Bukovsky emigrano per un reato
d’opinione, perché non la pensano come il Potere impone. La neutralità svizzera ha storicamente
ratificato due dittature, quella militar-borghese del Cile, quella burocratico-proletaria dell’Urss.
Soltanto la democrazia rifiuta di barattare l’uomo con una merce avariata.