1972 settembre 7 Durissime parole di Heinenmann

1972 settembre 7 (Il Gazzettino)

Durante la cerimonia allo stadio olimpico
Durissime parole di Heinemann

« Metto sotto accusa, ha detto il Presidente tedesco, non soltanto i terroristi ma anche quei
paesi che li aiutano e li finanziano» – Brundage: « Non possiamo accettare che i guerriglieri
vincano l’Olimpiade »

DAL NOSTRO INVIATO
Monaco, 6 settembre
Stamattina, all’Olympiastadion, ci sarebbe stata poca gente, per qualche salto in lungo e il
decathlon. Ma « Settembre nero » ha cancellato da ieri ogni impronta di sport e adesso alle 10 ogni
posto è occupato: ottantamila. E’ un « memorial day » allestito in fretta per ricordare i morti, quelli
che erano sembrati sette e che alla fine, l’uno accanto all’altro, hanno imposto una conta efferata:
diciassette.

Si entra nello stadio in fretta, ma il volume della voce è tenuto basso d’istinto. Si sistemano tutti
con ordine automatico, per una cerimonia di lutto, e non si sa ancora se possa essere questa la
chiusura della ventesima Olimpiade o il momento della ribellione, l’ultima fiamma che rifiuta di
spegnersi nonostante la pioggia di sangue. Tutte le bandiere sono a mezz’asta, i tabelloni elettronici
tacciono. Sul prato verde sono allineate centinaia di sedie, al sole. Lì stanno le delegazioni; non ci
sono grandi atleti, soltanto campioni di seconda mano, rotti qua e là dal turchese delle hostess.

Al centro, in linea frontale con la tribuna, i « resti » d’Israele: erano trenta quando sono arrivati a
Monaco; ora ne mancano undici all’appello. I superstiti, quasi tutti maschi, portano lo zucchetto,
azzurro e bianco. Una ragazzina, in seconda fila, piange senza singhiozzi. Gli altri siedono in
marmorea dignità. Dalla tribuna, Nino Benvenuti sussurra: « Questa è gente speciale, hanno una
forza che ti mette la pelle d’oca ».

Sotto la tribuna, a pochi metri dal rettilineo che celebrò gli sprint di Borzov, la Filarmonica di
Monaco accorda gli strumenti. Nello stadio scivola l’« Eroica » di Beethoven, le note funebri della
marcia, i violini che accarezzano il cemento e il vetro acryl dell’impianto più avvenirista della
architettura sportiva.

« Grande rendez-vous del Ghota », aveva chiamato la apertura dei Giochi un settimanale
specializzato in gente Vip e nobiltà. Il Ghota è ritornato qui, ma non fa più il baciamano. I fotografi
fermano gli occhi arrossati di Grace Kelly. La presenza politica dei tedeschi è totale: alla destra del
Presidente Heinemann, il Cancelliere Brandt.

I « padroni » del Cio non sono tutti presenti. La notte del terrore non li ha fatti dormire e, alle
nove circa, un’ora prima della cerimonia, hanno votato segretamente sul destino dell’Olimpiade. In
alto, Brundage è uno stendardo d’amianto, non può mancare nonostante i suoi 85 anni: solo lui può
dare l’annuncio, andare a casa o restare, perché da vent’anni questa è la sua creatura, che molti
sentiamo agonizzante e che lui alimenta d’ossigeno, con l’ottimismo dei pionieri d’America, il Paese
che ha dato soltanto una filosofia, il pragmatismo, ideologia del « fare ».

Cessata l’« Eroica » il primo a parlare è Willi Daume, capo dell’organizzazione. « Questo
dev’essere un festival della pace, l’ultima barriera alla violenza. Noi non ci fermiamo ». Non dice
ancora se lo sport ritornerà in pista, ma si avverte molta certezza, in quel « non ci fermiamo ».

Dopo di lui, in zucchetto scuro, va al microfono Samuele Lalkin, responsabile della missione
israeliana. Parla in ebraico, l’« yiddish » che è dialetto usato dagli ebrei polacchi. Penso alla notte
precedente, la notte all’aeroporto: 12 mila uomini, soldati e polizia, per togliere 9 ostaggi a 8
terroristi. E gli ostaggi muoiono tutti, mentre persino tre arabi salvano la pelle. Penso che ora, da
quella bocca, possa uscire un j’accuse da prostrare i tedeschi.

Non è così. Lalkin scandisce, uno a uno, nome e cognome degli israeliani uccisi. In tribuna, un
parente non regge all’angoscia e viene colto da collasso, la bocca spalancata, in barella, mentre il
medico gli solleva le gambe per ridare circolo al sangue. Poi, l’esponente israeliano ringrazia i
tedeschi per la « solidarietà dimostrata ». Sono in ottantamila che applaudono, a lungo. Intuisco che
qualcosa di importante, quasi un « patto di Stato », dev’essersi realizzato all’alba tra Germania e
Israele. Anche l’ambasciatore di Tel Aviv a Bonn assolve infatti i tedeschi e gli organizzatori. « Gli
assassini — afferma — hanno scelto i Giochi perché simbolo della fratellanza internazionale, ma
noi dobbiamo resistere. Speriamo, anzi, che il mondo raccolga finalmente il nostro appello a
valutare il tremendo problema del terrorismo ».

Dopo i due israeliani, si alza il Presidente federale Heinemann, sguardo duro, timbro da anatema.
Fa una, dichiarazione di grande sapore politico, soprattutto per Israele: « Metto sotto accusa —
batte Heinemann sillaba su sillaba — non solo i terroristi, ma anche quei Paesi che li ospitano o li
finanziano ». Il riferimento all’Algeria e al Libano è solare, e ricalca fedelmente la posizione ebraica
all’Onu: isolare i mandanti per liquidare gli esecutori.

Il cerchio della « solidarietà » tra ebrei e tedeschi ora pare veramente chiuso, in un do ut des che
va oltre le stesse date dell’Olimpiade. Con la parte lesa già capace di guardare avanti e di rifiutare la
tentazione del « processo » a ritroso, l’annuncio di Brundage s’innesta come ultimo pezzetto di un
perfetto meccano della diplomazia. Gelidamente, una collega finlandese mi dice: « Questo è un
teatro. Aveva ragione Brundage quando, giorni fa, disse che l’unica vera Olimpiade fu quella di
Helsinki ». Austera e poetica, nel 1952, l’anno in cui i sovietici ritornarono in Europa, dopo anni
d’isolamento staliniano.

« Non possiamo permettere che i terroristi vincano l’Olimpiade: i Giochi continuano da oggi, e il
mondo sarà d’accordo con noi nel non spegnere la fiaccola »: lo dice Brundage un po’ roco, stanco
ma impietrito d’orgoglio. Diciassette bare se ne vanno, come fantasmi sul tartan: lo sport resta.

Sono le 11 e 45 minuti. La Filarmonica intona l’Ouverture del « Prometeo » che stacca

dall’« Eroica ». Passaggio dalla morte alla speranza. La gente è venuta per ricordare; alla fine ha
ritrovato anche l’Olimpiade.

L’équipe egiziana è tornata al Cairo; si parla di un forfait delle Filippine. La televisione tedesca
annuncia che Nixon e la pubblica opinione americana sono favorevoli allo stop anticipato.
Rientrando al Presszentrum tutto sembra invece già appiattito dalla macchina burocratica. La
conferenza-stampa ripropone il sorriso. Valanghe di comunicati dettano le modifiche del calendario
sportivo, per una variante che condurrà allo spegnimento della fiaccola lunedì, anziché domenica.
Ci sono voluti 17 morti per spostare di 24 ore, prima volta nella storia, la grande festa dei record.

Gli ebrei ritornano a casa in 19 ed erano trenta. Due giorni prima dell’inizio dei giochi, avevano
visitato il lager di Dachau, a pochi chilometri da Monaco, primo campo di concentramento aperto
nel 1933 da Himmler, prefetto di Baviera. Quel giorno, soltanto un atleta israeliano non volle
andare a Dachau: Saul Ladani, marciatore di 36 anni, dalla testa liscia e le lenti spesse. Da bambino
era stato internato a Bergen-Belsen e soltanto un favoloso riscatto in dollari pagato dagli americani
era riuscito a salvarlo: lui, ma non il padre, assieme ad altri duemila prigionieri. Da 28 anni Ladani
non metteva piede in Germania. Ci è venuto per le Olimpiadi, weekend di pace, e soltanto per una

manata di Dio sulla spalla è saltato fuori dalla palazzina n. 31, ieri mattina, in Connollystrasse,
dribblando la morte, ancora una volta in Germania: questa volta morte araba, ma sempre con il
marchio dell’intolleranza.

E’ lui, marciatore dei 5 km, l’ebreo più emblematico di una condizione umana senza rami d’olivo,

in Palestina.

L’attacco–Kamikaze di « Settembre nero » nella sua tragica sequenza: dall’assalto alla
palazzina fino all’eccidio nella notte – La polizia ha fatto scattare l’« ora X » quando ormai il
suo esito era praticamente disperato

DAL NOSTRO INVIATO
Monaco, 6 settembre
E’ durato diciotto ore, dalle cinque alle ventitré di ieri, l’attacco-kamikaze dei palestinesi di
« Settembre nero »: alla fine, tra villaggio e aeroporto, sono stati contati 17 morti, una media di
quasi uno all’ora. Tutti gli undici ostaggi israeliani, cinque terroristi arabi, un poliziotto tedesco.
Altri tre ultras feriti sono stati arrestati e interrogati.

Stamattina notizie d’agenzia parlavano di diciotto morti, tra cui il pilota di uno degli elicotteri
usati per trasportare ostaggi e terroristi dal villaggio all’aeroporto: questa notizia è stata smentita. Il
pilota è fuori pericolo.

Il comitato esecutivo del Cio ha deciso che l’Olimpia Park continui a vivere di sport, ora che il
bubbone è stato estirpato con un sommario bisturi carico di pallottole. Ma l’Olimpiade dà ancora
grossi scrolloni, cetaceo in pena, che attende la marea di nuovi record, non dico per dimenticare, ma
almeno per fingere.

La routine organizzativa ha ripreso ritmo. La televisione rimette in onda l’atleta. I poliziotti sono
scomparsi. Soltanto la casetta dei sequestrati, giusto all’inizio della via che porta al clan Italia, è
ancora verboten, guardare ma non toccare, grigia come certe povere lapidi di campagna. I
funzionari del servizio di sicurezza sono letteralmente muti dopo l’orgia di contraddizioni che nella
notte ci ha spezzato i nervi, in un labirinto di speranze e di brutali ritorsioni. Restano tanto muti che
non tutte le pieghe della tragedia sono ancora esplorate, in una pellicola che nessuno ha forse
interamente girato.

Gli israeliani stavano al villaggio senza particolare protezione, né personale né da parte tedesca:
se esiste colpa, va assegnata fifty-fifty. Un paio di giorni fa si accorgono di un giovane che spia
nella loro palazzina: pensano a un curioso. Quasi sicuramente è uno dei due « basisti » che vivono
al villaggio.

I palestinesi arrivano prima che salga la luce dell’alba, bussano, apre Moshe Weinberger, una
raffica lo sventra. Colpiscono anche Joseph Romano, 31 anni, di origine libica. Non muore subito,
lo finiscono con una coltellata. Altri nove israeliani vengono legati alle mani e ai piedi. Comincia la
lunga agonia. I palestinesi, interprete una hostess, mollano giù un biglietto dalla finestra con le
condizioni per Moshe Dayan: liberare duecento prigionieri arabi, subito. Gli ultimatum sono
giaculatoria sempre sul punto di finire e sempre protratta. Servizi segreti, diplomazia internazionale
e politici tedeschi intrecciano una colossale matassa, con un unico filo conduttore: guadagnare
tempo, anche per poter contare, al momento della verità, su avversari il più stanchi possibile, magari
snervati.

I tedeschi offrono una somma « illimitata »; offrono anche un numero equivalente di ostaggi
Deutsch, che sostituiscano gli israeliani. Ma « Settembre nero », ala estremista di Al Fatah, non sa
che farsene né dei marchi né dei tedeschi. Dicono che hanno attaccato perché la polizia israeliana,
venti giorni fa, ha respinto da due villaggi di frontiera gente araba che voleva rientrare alle proprie

case.

Quando colpisce, « Settembre nero » squassa, con assoluta indifferenza per la vita, propria e
degli altri, senza distinzioni. E cercano sempre il clamoroso black ground: non c’è dubbio che
l’Olimpiade di Monaco lo sia. Quasi 700 giornali, una settantina di stazioni radiotelevisive, un
miliardo di telespettatori, la più grande sagra dei mass media mai allestita al mondo. Colpire Israele
qui, significa colpirlo entrando negli occhi dell’umanità.

I pistoleros tedeschi provano a scalare la palazzina in tute sportive. Il rischio è tremendo, anche
perchè attorno sbucano decine di atleti dagli altri stabili. L’apparato tedesco ha già deciso che né
ultras né ostaggi debbano lasciare la Germania, ma rinunciano per ora. Si punta tutto sull’aeroporto
militare di Monaco, verso il quale, alle 22,15, volano nel buio tre elicotteri dell’esercito, con ostaggi
e palestinesi, ai quali è stato, tatticamente, promesso, un Boeing 727 a volo ibero, verso un Paese
arabo precisato.

La polizia tedesca fa scattare l’ora X, mentre i cecchini sono appostati attorno al Boeing e
tengono nel mirino gli elicotteri atterrati a circa 80-90 metri. Un triplice segnale luminoso della
torre di controllo dà il via alla sparatoria, con un tasso di rischio dell’85% per gli ostaggi, ma la
polizia è convinta di sparare su gente già destinata a sicura fucilazione dagli ultras, e quindi ragiona
secondo metro quantitativo. « Chissà, forse qualcuno riusciamo a salvarlo ».

« Settembre nero » ha il coraggio del fanatismo ed è armato fino ai denti. Da un elicottero
scendono terroristi, ostaggi con le mani legate, ed il pilota. Forse, la polizia spara troppo presto, con
troppo buio. Uno sciame di proiettili si infila nel mazzo, tutti a terra, vicino all’elicottero,
probabilmente (ma per ora è soltanto la versione più attendibile) colpiti dai fucilieri scelti.

Sull’altro elicottero, il destino degli ostaggi inorridisce. Da una testimonianza assolutamente
attendibile che ho raccolto oggi all’aeroporto, metà ostaggi sarebbero bruciati vivi, con mani e piedi
legati, dentro quella carcassa in fiamme dalla quale soltanto il pilota è riuscito a buttarsi ed a
salvarsi. Saltato con una granata dei fedayn bucato da una pallottola al serbatoio, l’elicottero è un
forno che cancella dai corpi perfino i segni del riconoscimento, impossibile.

Il suicidio di un palestinese, una bomba a mano liberata davanti al viso, rivernicia miti corruschi
e dà la misura di quei minuti disperati, come se lì sulla pista di cemento si fossero dati
appuntamento da sempre, dopo aver deciso che il villaggio non era il posto giusto per morire:
meglio, molto meglio, quello spiazzo vuoto, da mezzanotte di fuoco, a bruciapelo, quando il morire
o il sopravvivere è soltanto uno scherzo di proiettile o, peggio, una sedia di tortura dalla quale non
riesci a svellerti.

Per un paio d’ore, gli organizzatori praticamente tacciono, ma la televisione tedesca parla
attraverso il capo della polizia bavarese e accredita la tesi degli « ostaggi tutti salvi ». Nemmeno
oggi nessuno sa spiegare una gaffe che ha coinvolto la stampa di tutto il mondo. Forse, la ragione è
soltanto psicologica, una inconscia fretta di togliersi il peso dallo stomaco e troppa paura covata in
18 ore per saper resistere alla tentazione dell’ottimismo.

L’ « alle tot!» il « tutti morti », spegne il set. Si dice che commandos tanto distruttivi « nuocciono
alla causa araba ». Ma i giovani di « Settembre nero » rifiutano interpretazioni e calcoli: si sentono,
in solitudine, unici veri interpreti della causa araba. Perciò non potranno mai capire come alcune
delegazioni di Paesi arabi si siano recate stamattina a esprimere cordoglio agli israeliani, abbrunata

bandiera di Sion.

L’Olimpiade si tura le orecchie e infila lenti scure, non vuol più sentire né vedere. Tornano le
pacifiche pistole degli starters e tute oneste, che non celano l’inganno. Forse ho una sensazione
sbagliata ma mi è sembrato di intuire stasera perfino un senso di sollievo: « Sì, è finita male ma
almeno è finita ». Forse, si riesce a passare sul sentimento con il bulldozer soltanto perché quelle
sedici bare non le abbiamo qui, davanti ai nostri occhi, in fila, una fila lunga, di giovani maciullati
da un ingranaggio tanto infrangibile da sembrare soltanto maledizione.

La polizia ha sparato alla cieca

Monaco, 6 settembre
Apprendo a tarda ora due particolari che danno oltretutto la misura della disumana tensione alla
quale sono stati sottoposti ostaggi e polizia tedesca dai “killers” di « Settembre nero ». Durante le
trattative al Villaggio, poiché i funzionari tergiversavano sulla concessione dell’ aereo, due terroristi
sono scattati in piedi puntando la canna del mitra a due israeliani appoggiati al muro: « Se inventate
questa difficoltà — ha detto uno degli “ultras” — ne ammazziamo subito due, qui davanti ai vostri
occhi. Non vogliamo che vi illudiate non prendendo sul serio gli ultimatum ». La controparte ha
immediatamente ceduto quando le dita stavano già sul grilletto. Visto il no di Israele alla
liberazione dei 200 prigionieri, la polizia ha sempre ritenuto che la partenza avrebbe significato la
fine matematica per gli ostaggi.

All’aeroporto, i terroristi hanno chiesto un bus anche per il brevissimo tragitto tra gli elicotteri e
il Boeing. Avutone uno, lo hanno rifiutato; ne volevano un altro, di diverso tipo. E’ stato a quel
punto che la polizia ha valutato di trovarsi di fronte all’ultima possibilità di sparare all’aperto, anche
se praticamente alla cieca, nel buio. L’incendio di un elicottero è avvenuto subito; le raffiche a corta
distanza si sono esaurite in pochi minuti, ma la sparatoria con i superstiti arabi è durata fino alle
2,30 (ora di Monaco).

Quanto alla diffusione in tutto il mondo della falsa notizia sulla liberazione degli ostaggi, sembra
sia stata determinata dall’errore di un funzionario di polizia, che ha scambiato un gruppo di agenti in
borghese per ostaggi: la segnalazione, passata immediatamente all’agenzia di stampa tedesca e alla
televisione, è rimbalzata ovunque.