1972 settembre 6 Attacco kamikaze

L’attacco kamikaze
Quando colpisce, «Settembre nero» squassa, con assoluta indifferenza per la vita, propria e degli
altri, senza distinzioni. E cercano sempre il clamoroso black ground: non c’è dubbio che
l’Olimpiade di Monaco lo sia. Quasi 700 giornali, una settantina di stazioni radiotelevisive, un
miliardo di telespettatori, la più grande sagra dei mass media mai allestita al mondo. Colpire Israele
qui, significa colpirlo entrando negli occhi dell’umanità.

I pistorelos tedeschi provano a scalare la palazzina in tute sportive. Il rischio è tremendo, anche
perché attorno sbucano decine di atleti, dagli altri stabili. L’apparato tedesco ha già deciso che né
ultras né ostaggi debbano lasciare la Germania, ma rinunciano per ora. Si punta tutto sull’aeroporto
militare di Monaco, verso il quale, alle 22,15, volano nel buio tre elicotteri dell’esercito, con ostaggi
e palestinesi, ai quali è stato, tatticamente, promesso, un Boeing 727 a volo libero, verso un Paese
arabo imprecisato.

La polizia tedesca fa scattare l’ora X, mentre i cecchini sono appostati attorno al Boeing e
tengono al mirino gli elicotteri atterrati a circa 80-90 metri. Un triplice segnale luminoso della torre
di controllo dà il via alla sparatoria, con un tasso di rischio dell’85% per gli ostaggi, ma la polizia è
convinta di sparare su gente già destinata a sicura fucilazione dagli ultras, e quindi ragiona secondo
metro quantitativo. «Chissà, forse qualcuno riusciamo a salvarlo».

«Settembre nero» ha il coraggio del fanatismo ed è armato fino ai denti. Da un elicottero
scendono terroristi, ostaggi con le mani legate, ed il pilota. Forse, la polizia spara troppo presto, con
troppo buio. Uno sciame di proiettili si infila nel mazzo, tutti a terra, vicino all’elicottero,
probabilmente (ma per ora è soltanto la versione più attendibile) colpiti dai fucilieri scelti.

Sull’altro elicottero, il destino degli ostaggi inorridisce. Da una testimonianza assolutamente
attendibile che ho raccolto oggi all’aeroporto, metà ostaggi sarebbero bruciati vivi, con mani e piedi
legati, dentro quella carcassa in fiamme dalla quale soltanto il pilota è riuscito a buttarsi ed a
salvarsi. Saltato con una granata dei fedayn o bucato da una pallottola al serbatoio, l’elicottero è un
forno che cancella dai corpi persino i segni del riconoscimento, impossibile.

Il suicidio di un palestinese, una bomba a mano liberata davanti al viso, rivernicia miti corruschi
e dà la misura di quei minuti disperati, come se lì sulla pista di cemento si fossero dati
appuntamento da sempre, dopo aver deciso che il Villaggio non era il posto giusto per morire:
meglio, molto meglio, quello spazio vuoto, da mezzanotte di fuoco, a bruciapelo, quando il morire o
il sopravvivere è soltanto uno scherzo di proiettile o, peggio, una sedia di tortura dalla quale non
riesci a svellerti.

Per un paio d’ore, gli organizzatori praticamente tacciono, ma la televisione tedesca parla
attraverso il capo di polizia bavarese e accredita la tesi degli «ostaggi tutti salvi». Nemmeno oggi
nessuno sa spiegare una gaffe che ha coinvolto la stampa di tutto il mondo. Forse, la ragione è
soltanto psicologica, una inconscia fretta di togliersi il peso dallo stomaco e troppa paura covata in
18 ore per saper resistere alla tentazione dell’ottimismo.

L’ «alle tot!» il «tutti morti», spegne il set. Si dice che commandos tanto distruttivi «nuocciono
alla causa araba». Ma i giovani di «Settembre nero» rifiutano interpretazioni e calcoli: si sentono in
solitudine, unici veri interpreti della causa araba. Perciò non potranno mai capire come alcune
delegazioni di Paesi arabi si siano recate stamattina a esprimere cordoglio agli israeliani, abbrunata
bandiera di Sion.

L’Olimpiade si ottura le orecchie e infila lenti scure, non vuol più sentire né vedere. Tornano le
pacifiche pistole degli startes e tute oneste, che non celano l’inganno. Forse ho una sensazione
sbagliata, ma mi è sembrato di intuire stasera perfino un senso di sollievo: «Sì, è finita male ma

almeno è finita». Forse, si riesce a passare sul sentimento con il bulldozer soltanto perché quelle
sedici bare non le abbiamo qui, davanti ai nostri occhi, in fila, una fila lunga, da giovani maciullati
da un ingranaggio tanto infrangibile da sembrare soltanto maledizione.