1972 Settembre 12 Spenta con il fuoco olimpico un illusione di fraternità

1972 Settembre 12 – Spenta con il fuoco olimpico un’illusione di fraternità

La sera è fredda per l’addio a Monaco ’72. Lo “ speaker ”avverte che si spegneranno le luci, e che,
subito dopo, rimbomberanno delle scariche: “ Ma non abbiate paura – aggiunge – sono colpi a salve
per ricordare la fiaccola ”. E’ l’ultima precauzione dell’ Olimpiade più aggredita della storia
moderna. Mentre scrivo, salgono in cielo lungo il dorso esterno dello stadio drappi portati da
palloncini e sicuramente non previsti dal protocollo: uno reca segni anti-atomici, un altro i colori (
ma la visuale non è chiara) del Vietnam del Nord. E questo deve essere l’ultimo insulto all’apparato
di sicurezza tedesco.

Sui pennoni soltanto la bandiera di Israele sta a mezz’asta. Sul prato, soltanto il parcheggio
d’Israele è vuoto, senza atleti. Per quel vuoto, l’addio di stasera è stato scarnificato: non ci sono
balli, non fuochi d’artificio. Una gioia dissimulata, frenata da ricordo, in un minuto di silenzio che
turba. Ottantamila persone sembrano trattenere ora il nodo in gola, almeno così voglio credere. Il
silenzio è impressionante, un’esperienza mai vissuta prima con tale intensità, nel buio aperto
soltanto da qualche fascio diagonale e da un enorme arcobaleno, tubi di plastica riempiti d’elio.

Dopo i cavalli della scuola di Vienna, dopo l’ingresso di centinaia d’ atleti mischiati assieme senza
distinzione di bandiere, Avery Brundage chiude con poche parole:” Chiamo la gioventù di tutto il
mondo a ritrovarsi tra quattro anni a Montreal ”.

Nessuno più di lui sa essere ieratico, impareggiabile: physique du ròle ”. Il tabellone gli scrive a
lettere cubitali “ Thank you Avery Brandage ”, sbagliando la grafia del cognome!

Accanto a lui, in tribuna, è seduto Willy Brandt. Sono tutti in piedi nello stadio, quando, alle
20.03, ora di Monaco, la fiaccola della ventesima olimpiade cala d’intensità, con flebile tremolio, e
si spegne. La gente ha come un attimo di incertezza, non sa se applaudire, ed è la luce, centinaia di
potenti proiettori allo jodio, che spacca la malinconia.

Sul tartan sono scesi centinaia di bavaresi nel loro costume tradizionale. Dietro a loro si scioglie lo
schieramento delle squadre.

La suggestione si stempera. Lo stadio perde compostezza. Le tribune cominciano a svuotarsi,
mentre piccole torce elettriche continuano a balenare. Le squadre più estroverse, soprattutto i
messicani, improvvisano show d’ istinto, traducendo il passo di marcette folk che ora l’altoparlante
butta nell’ aria.

Un ragazzo biondo salta sul prato e sventola, lungo tutto il bordo della pista, la bandiera della
Rhodesia. Nessuno lo fischia. Monaco ora saluta e scrive, in alto, “ Arrivederci a Montreal ”. I
canadesi sono gli ultimi ad andarsene. Comincia anche per loro la grande attesa. Tra quattro anni,
chissà, il mondo sarà stato capace di una briciola di fratellanza che basti almeno per dieci giorni di
sport?

Fu nell’ottobre del 1965 che il Cio prese in considerazione la candidatura di Monaco come sede
della ventesima Olimpiade. Sette anni dopo, mentre siamo tutti con le valigie in mano, non so più se
i tedeschi pensino sul serio d’aver fatto un buon “ affare ”.

Le frasi celebri si consumano per strada. Di Monaco, scrisse Thomas Mann: “ E’ una città del
sentimento umano ”. E il capo dell’organizzazione, Willi Daume, ha chiuso un suo recente fondo (

titolato “ Pace, idea dominante ”) con queste parole: “ Qui americani e vietnamiti, nord e sud
coreani, Est e Ovest, indiani e pakistani, Africa bianca e Africa nera, israeliani e arabi, vivranno
assieme e combatteranno l’uno contro l’altro in amicizia ”.

Invece, né sentimento, né pace, né “ friendship ”, come era stata chiamata. Un miliardo di
telespettatori, e tre milioni e mezzo di persone con biglietto, hanno assistito alla più politicizzata
delle Olimpiadi. Nata con la fissazione di seppellire i fantasmi del passato, la festa di Monaco ha
incredibilmente pagato l’utopia con gioco di prestigio, ha infilato una colomba nel cappello e ne ha
estratto un mitra.

Ricordo d’aver guardato e letto, appena arrivato a Monaco, uno studio sui colori e la grafica pensati
da Oti Alcher per l’Olympia park.

Persino la scelta di tinte pastello e un disegno da giovani 2000 era spruzzata d’ideologia. Una
dicitura diceva testualmente: “ Anche l’immagine visiva deve riscattare di fronte all’ opinione
pubblica mondiale Berlino ’36 ”. Adesso l’ Olimpiade è ripiombata nello scetticismo: ed è proprio
questo il segno più nero, Il bilancio più fallimentare. Distratta a guardare indietro, ha sottovalutato il
presente, tanto da non riuscire più a credere ciecamente nel futuro.