1972 giugno 19 Scopigno, sempre più randagio e sempre meno eroe

1972 giugno 19 – Scopigno, sempre più randagio e sempre meno eroe

Manlio Scopigno si definisce “ di sinistra ”. Non ama la cravatta. Preferisce camicia e pullover,
aderenti. Rinsecchito com’è, anticipa la verticale “ linea Eiffel ” di imminente lancio in Francia. Il
suo mattino è corto assai perchè attacca alle undici. Di solito, lo impiega per le prime sigarette e per
i quotidiani. Allena di pomeriggio “ perchè si gioca di pomeriggio ”, dice lui. Forse lo fa anche
perchè è un ipoteso al quale le prime ore del giorno esistono soltanto per aprire le palpebre.
Legge tutto, compreso l’ “ erotico ”. Da quando lavora a Cagliari, il jet è il suo tram.
Dedica alla figlia Francesca una giornata alla settimana. L’infanzia di Scopigno fu Paulara di Udine,
la pubertà Rieti. La moglie è più alta di lui, bruna, maestra elementare, estroversa, due grandi occhi
neri dalla fragile retina. Più vocato alla “ comune ” che alla “ famiglia ” borghese, Scopigno sottrae
alla curiosità altrui ciò che considera il nocciolo dei “ fatti propri ”, suocera compresa.
Dopo averlo conosciuto, Gipo Viani, razza Piave, temperamento gotico, mi confessò:
“Francamente, ‘sto Scopigno non lo capisco ”. Scopigno non possiede né l’umanità di Rocco nè la
fede di Helenio né l’arrivismo di Radice né l’archivio di Bernardini. Non crede alla mitologia del
football. Crede soltanto alla razionalità. Perciò, il suo scetticismo, più che atteggiamento, è certezza,
humour cioè misura, proporzione mai disinteresse. Il cosiddetto snobismo di Scopigno resta scorza
di comodo, per chi ha inferiority complex e lo vorrebbe invece “ uguale ” senza rughe, senza
insenature psicologiche.
Anni fa, Scopigno va a San Siro, con il Lanerossi. Il Milan di Viani riporta in campo Josè Altafini,
dal Brasile. Il Lanerossi vince con un gol di Colausig, biondino, ghignante, calzettoni bassi, podista,
brevilineo e asciutto. Nello spogliatoio, Scopigno biascica tra denti devastati: “ Quando segna
Colausig, il Lanerossi vince sempre ”.
– E quante volte ha segnato?, gli chiediamo.
“ Mai ”.
E’ antipatico a molta gente perchè rende difficile il contatto, anche giornalistico. Non dice la cosa
comoda, scontata ma facile e senza problemi. Usa l’ironia, strumento letterario caduto tanto in
disuso da non essere più perdonato nemmeno alla penna e alle delicate vignette di Giovanni Mosca.
Non è lacchè Manlio Scopigno. Può essere amico di Moratti senza adularlo. E proprio mentre la
Juve – Fiat di Agnelli ritrova prestigio, non ci pensa un attimo a definire “ asilo ” la squadra di 10
milioni d’ Italiani.
Se è marxista, lo è in maniera eterodossa. Crede ai contratti sulla parola tanto da ritrovarsi senza
contratto. Da spesso fiato al sindacato di Campana, ma disapprova il dossier – Rivera “ perchè, –
spiega – la libertà di parola non è libertà di calunnia ”. A Roma e Milano, conta su amici importanti,
uno dei quali gli ha dato una mano, l’altro giorno, per…buttarlo fuori da Cagliari. Lui stesso pur
incarnandone l’inconsueto, appartiene al Sistema della pedata italica. Anche intrallazzo e quotidiana
meschinità, il Sistema, rifiutato con il cervello, rientra dalla Cassa di una Spa, con l’ingaggio.
Non possiede automobile, né guida. In Sardegna, ha acquistato una villa sulla Costa Smeralda,
verso Cala di Volpe. A Cagliari, ha aperto una galleria d’arte, “ La Bacheca ”, in comproprietà con
Enzo Lucenz, 33 anni, milanese, uscito dall’Accademia di Brera, di formazione impressionista.
Estimatore dell’astrattismo, Scopigno ha però gusti molto concreti: Gigi Riva e lo champagne il
miglior regalo della terra. Gradisce anche il whisky, sia pure con freddezza, quasi strumento,
soltanto un modo di stare con qualcuno.
Non ha portamonete. Tiene il denaro sparso, nella tasca destra. E’ generoso. Non ama i clubs, le
cene sociali, le bandiere, gli inni. Soltanto il giorno dello scudetto, due anni fa, un velo umido gli
passò sugli occhi. Sorride della “ carica ”, di Helenio o Giagnoni che sia. Crede soltanto al dialogo,
perchè i professionisti siano uomini e non sempre adulti infantilizzati. Pochi sanno intuire un
giocatore come lui. L’apparente “ anarchia” delle sue Gestioni è la smentita alla “ gabbia dorata”
del calcio italiano. A Cagliari, qualcuno lo accusa di allenare poco, ma il Coni gli ha chiesto una
relazione scritta sul suo training, originale non soltanto per l’assenza dei costosissimi ritiri.
Detesta i dirigenti da vetrina, foto, cipria e sorrisi. Difende fino al licenziamento ( vedi Bologna) la

sua autonomia. Irride ai “ Maghi ” e porta allo scudetto giocatori come Niccolai, Tommasini,
Mancin, lo scarto della Juve Nenè e gli scarti dell’Inter, Domenghini e Gori. Ama la provincia e i
giocatori provinciali. Onora la gente seria come Vinicio, o Zoppelletto e sull’avversario più
importante, mette di solito il terzino più modesto, guancia a guancia. Vicenza resta nostalgia
autentica “ dove vorrei ritornare ”, e lo dice con l’aria di chi, vissuto troppo vuol andare a morire
nella sua Spoon River.
Se Manlio Scopigno è questo, il suo posto non è il calcio nostrano. Il calcio ha bisogno di testimoni
semplici, tutti d’un pezzo, refrattari al dubbio. Il calcio è albero della vita, altare, patria: non prevede
lo scetticismo, né l’originalità, né il sarcasmo, ne la bacheca o lo champagne guardato con spirito di
Chez Maxim. Il calcio nostrano ha bisogno del Mago, di Beppone, del Paron, del Dottore, di Sior
Berto, del Petisso. Ha bisogno di effigi senza sofisticazioni, tutti in fila, tutti fratelli, tutti devoti.
“ Non restano più colpe da commettere ” diceva Thiers. Le ha commesse, nel football, tutte Manlio
Scopigno, sempre più randagio e sempre meno eroe.