1972 agosto 26 Birra e sentimento

1972 agosto 27 – Birra e sentimento

Per il prussiano Federico Nietzsche “ l’uomo è una corda annodata fra l’animale e il Superuomo, una
corda tesa sopra un abisso ”. Monaco ’72 ha fatto l’impossibile per annullare questo abisso con
un’Olimpiade la cui scenografia sembra appartenere a Cecilie B. De Mille e che sprigiona da tutti i
pori la fantasia innovatrice degli architetti. Per mandare in archivio l’Olimpiade dei plusvalori,
Monaco aspetta ora soltanto i records, 1109 medaglie per 21 specialità.
L’Olympia Park è ramificata sui tre milioni di metri quadrati dell’Oberwiesenfeld, a quattro
chilometri da Marienplatz, cuore di Monaco, isola pedonale tutta segnata da geranei rossi e bianche
petunie, dove le ore sono scandite dall’orologio figurato del XV secolo. Quattro chilometri di
distanza, ma è come se ci stessero in mezzo degli anni-luce. L’ Olympia Park è infatti l’altra
Monaco: quella del tartan e dell’ elettronica, un set per un miliardo di telespettatori, un tempio
pagano che del barone De Coubertin ha conservato soltanto lo slogan “ citus – altius – fortius ”, una
rivoluzione urbanistica che un’ inchiesta di studenti bavaresi ha definito “ catastrofe olimpica ”.
La forza della televisione ( “ Fernsehturms ”) è alta 290 metri: un dito di cemento puntato al cielo.
In circa 30 secondi e per poco più di due marchi, si sale in cima al dito, con il vento delle Alpi che
forza le narici. E di lassù che si riesce a “ vedere ”, a dare dimensione. Effetto di tendopoli, di circo
con radici perenni. Il prestigio tedesco, “ ubes alles ”, sta soprattutto nella copertura degli impianti-
madre, lastre di vetro acryl tenute assieme da corde d’acciaio, come un ricamo di bulloni e fiamma
ossidrica. Sono enormi “ galani ”, di riflesso gelatinoso.
La vogliono scolpire tutti come Terra Promesa dello sport modernista, ma questa Monaco sarà
anche grande, enorme, pantagruelica mensa. La città dell’Oktober Fest liscia le piste con un lascivo
odore di birra. Gli spiedi arrostiscono l’aria. Non ho mai visto tanti ristoranti addosso agli impianti:
in uno, ci sono tavole per tremila persone, contemporaneamente. E, in un altro, sulla torre,
mangiano i VIP, nella solitudine del privilegio, mentre l’orizzonte ruota silenziosamente di 360
gradi. Il destino nazista fu celebrato un giorno in una birreria di Monaco: il destino della nuova
Germania marcia oggi in pacifici prosit. I cannoni sparano salsicce, vere protagoniste di un
ecumenismo olimpico che trova i suoi altari nelle cucine. Ma, la Baviera non sente nostalgia.
A forza d’inseguire il “ Super ”, questa Olimpiade rischia però d’inquinare l’uomo. Nuovo orpello è
il consumismo e la pubblicità. Per avere la fiaccola, Monaco ha speso due miliardi di DM ( quasi
400 miliardi di lire): questi marchi, adesso Monaco li rivuole indietro. Il 61% della spesa totale è
toccato infatti al Comitato Olimpico tedesco; il resto al Governo centrale e a quello regionale.
L’operazione-rientro conta una capillare pianificazione: “ alla fine” sogghigna un operatore
economico “ avranno guadagnato tutti ”.
Le ricevitorie delle Tombole paiono capitelli. E la pubblicità copyright-Cio non risparmia nulla,
sbandando spesso nel Kitsch o cattivo gusto. Lenzuola, indumenti, accendini, polsini, apribottiglia,
giocattoli, torri, bottoni, piatti, tutto insomma, qualsiasi oggetto, qualsiasi incastro, qualsiasi
contaminazione per far fruttare il marchio: i cerchi o i colori o la spirale a raggi ideata come
simbolo da Victor Vasarcly su commissione del Cio. Waldy, bassotto a pelo lungo, è la
“moskottchen” di Monaco come dicono le diciture ufficiali: un buon formato, nelle tipiche tinte
pastello, costa 20 marchi. Entro la recinzione degli impianti, ogni scritta pubblicitaria è vietata, non
possono essere venduti alcolici né recipienti in vetro: ma appena fuori, oltre la rete del
puritanesimo, l’Olimpiade torna permissiva e le stimmate del Cio accompagnano anche i furgoncini
dei gelati Efa. Nelle strade che dall’ Olympia Park conducono fino a Karolinenplatz, negozi garage
e grill portano lo stesso imprimatur, come una tangente pagata.
Che il conto economico stia diventando l’anima di Monaco ’72 è anche coerente con l’evoluzione
della specie sportiva: nelle arnie del villaggio ci stanno infatti quasi 14 mila atleti, nessuno dei quali
è veramente “ dilettante ”, secondo leggenda panellenica o romanticismo d’aristocrazia.
Dollari o rubli che siano, borse di studio o professori di educazione fisica che si chiamano,
l’Olimpiade consacra la grande ipocrisia dei “ puri ” e lo snobismo dell’ “ importante è partecipare ”.
Nessun candore, se non quello dell’ exploit atletico, può convivere oggi con 400 miliardi d’impianti.

E’ tutto artificiale e costruito, qui a Monaco. L’erba che vedi non è cresciuta sull’ Oberwiesenfeld:
pezzo per pezzo, l’hanno trapiantata a fette rettangolari, sollevate da lontani vivai. Gli alberi che
vedi sono cresciuti in tutto il mondo e i primi ad arrivare, in jet, furono alcuni cedri del Libano.
Anche il laghetto è invenzione. E persino le colline. Le hanno ondulate come impastare il pane:
impasto ancora sanguinante perchè quelle colline sono le macerie di Monaco 1945, dopo 66
bombardamenti.
Ho visto una lunga processione sotto la torre della televisione, per vedere il vetro acryl e sbirciare il
ristorante VIP. Ma ho visto una lunga processione anche su quelle colline, lungo una stradicciola
dedicata a Martin Luther King. Molti bambini, molti cani di razza, un bronzo stilizzato, una croce,
un epitaffio ai “ soldaten ”, qualche gradino orientato verso il sole.
Un’ Olimpiade è tutto: il passato, la guerra, la pace, la tecnica, il professionismo, la speculazione, il
sentimento, il progresso, i records, le salsicce. Monaco ’72 non è né giusta né sbagliata: resta
soltanto emblema di vita, una mamma indulgente, capace di chiudere sempre un occhio e, spesso,
entrambi. Non a caso, proprio al centro dell’ Olympia Park, sopravvivono tre piccole costruzioni,
tinte di verde, con croci e cupole: la casa dove, da una ventina d’anni, vive il pope ortodosso
Timofej Prokoroff, e la sorella Natascia. L’opinione pubblica di Monaco ha bloccato il bulldozer,
impedito lo sfratto, immalinconito gli architetti. Quell’oasi è la coscienza non pietrificata. Il tartan
può attendere: per quanto ancora?