1969 giugno 10 Dal Giro una conferma: il ciclismo non è morto

1969 giugno 10 (Il Gazzettino)

Nonostante le disgrazie tecnico-ambientali, la partecipazione del pubblico è stata notevole

Dal Giro una conferma: il ciclismo non è morto

Una statistica da interpretare – Televisione e pubblicità – Il test è venuto dall’assenza di
Merckx – Il camaleonte Adorni – Un sistema sconfessato

Il Giro ha dimostrato che il ciclismo non è morto nonostante l’anacronismo dello « strumento » di
base, la bicicletta. Il panettiere o il postino che quotidianamente scala chilometri per « lavoro » e si
ritrova vocazione da « corridore », non esiste più. Oggi il pane arriva con il furgoncino, la posta con
lo scooter. E’ vero che la vendita di biciclette nel ’66 è stata del 23,8 per cento superiore a quella del
’67, ma, radiografando la statistica, si scopre che l’aumento è dovuto soprattutto alla produzione di
mini-biciclette, formato « graziella » tanto per intenderci, legate allo sconvolgente traffico urbano;
oppure ad una scelta « terapeutica » in omaggio alle tesi del cardiologo statunitense Withe per il
quale l’uso della bicicletta è la miglior arma anti-infarto. La statistica non cancella l’anacronismo.

Dolomiti

Ma la crisi di selezione naturale è abbondantemente compensata dal bombardamento pubblicitario.
Il ciclismo non muore perché esiste la Televisione; parche la Faema o la Molteni o la Sanson
ritengono che le spese per mantenere una squadra ciclistica siano giustificate nel budget dalla
« presenza televisiva » di fronte a milioni di telespettatori, « consumatori » potenziali dei loro
prodotti. Non si tratta più di un fenomeno a germinazione spontanea, ma di un consolidamento
costruito, quasi di una sovrastruttura. Qualunque sia però la spinta, il Giro numero 52 ha
confermato che la « base» tiene, che la partecipazione del pubblico è enorme, nelle strade o al caffè.
Sulle Dolomiti, nonostante il clima e nonostante l’assenza di Merckx, il deserto non c’è mai stato.
Non solo: alla Marmolada erano arrivate migliaia di macchine, centinaia di pullman. Per quanto
disincantati si possa essere, è impossibile chiudere gli occhi su migrazioni tanto massicce.

Lo consideriamo un test valido per stabilire che il Giro e quindi il ciclismo sono vivi, proprio
perchè è accaduto di tutto, sul piano extra-sportivo. Le ipotesi contano poco, ma è normale supporre
che la presenza di Eddy Merckx sulle Dolomiti, la possibilità cioè di un’antitesi seria per Gimondi,
avrebbe scatenato una partecipazione straordinaria, formato Coppi-Bartali.

Herrera-Merckx

Non è il percorso sterrato che fa « eroico » o spettacolare un Giro: sul percorso sterrato si può anche
passeggiare. Sono i protagonisti, le possibilità contraddittorie che esaltano il fatto sportivo. Nove
anni fa il calcio italiano respirava congiuntura di interesse popolare, in tutti i sensi. La « sociologia
sportiva » è unanime nel riconoscere che il sasso scagliato nello stagno fu Helenio Herrera,
picaresco e reazionario finché si vuole, ma una specie di lievito quotidiano per uno sport che è
anche « discussione », polemica. Al ciclismo è capitata pressappoco la stessa cosa: il sasso nello
stagno fu Eddy Merckx. Un personaggio-atleta che ha ridato senso e confronto ai corridori italiani.

Un asso che, nella sua completezza tecnica, regala anche al pubblico « marginale » il gusto della
performance da superuomo.

Perciò, proprio l’« espulsione » di Merckx dal Giro, deformandone il contenuto, è servita a
dimostrare la resistenza di uno sport escluso dalla civiltà delle macchine. Ci sembra questa l’unica
analisi positiva che si possa trarre dal Giro. Perchè il contenuto tecnico ne è uscito molle e svuotato:
1) dalla assenza conclusiva di Merckx; 2) dal salto della tappa più dura e, presumibilmente, più
selettiva. A Folgarida, l’abilissimo Adorni (che qualche giorno prima aveva dichiarato: « Merckx ha
una marcia in più, avrebbe vinto il Giro ») tentò di convincere tutti che « Gimondi avrebbe vinto
anche se ci fosse stato Merckx ». Sappiamo come vanno queste cose: si tratta, di professionisti; il
Giro finisce ma la « vita assieme » continua, nelle riunioni in pista, sempre; alla fine del Giro si
tenta di cucire gli interessi comuni, di aggiustare le pubbliche relazioni tra colleghi. Ma tali
camaleontiche disinvolture non incantano nessuno. Le parole passano, i fatti (tecnici) restano.

Regolamento

Gimondi Felice vince il suo secondo Giro senza aver mai vinto una tappa: come accadde allo
sbiadito e congiunturale Balmamion. Gimondi arriva a Milano, siede al processo-Zavoli, assiste ad
una specie di flashback tra giornalisti sull’antidoping, poi dichiara: « Io non capisco perchè si debba
star qui a polemizzare, a parlare ancora di doping, quando c’è tanto da dire sugli aspetti tecnici e
agonistici della corsa ». Esiste un articolo del regolamento del Giro che fa obbligo al primo nella
classifica generale di indossare la « maglia rosa »: la trasgressione è punita con un’ammenda di lire
20 mila e diffida. Gimondi, il giorno in cui Eddy Merckx risultò dopato, rifiutò la maglia che,
stando alla classifica « dopata », gli spettava. E’ veramente strano, per usare un eufemismo, che
Gimondi Felice non riesca a capire perchè di questo Giro, di questa vittoria, non si possa che parlare
in « una certa maniera ». Con tutto il rispetto per la sua fatica. Con tutta l’adesione al suo cliché di
campione.

Ci pensi un attimo Gimondi: è bastata una provetta « positiva », perchè tutto il sistema delle pene
antidoping (come riferisce Mocchetti da Milano) sia stato sconfessato. Segno che le nostre assolute
riserve sul sistema avevano ed hanno radici esatte.