2000 gennaio 21 Luciano Benetton

2000 gennaio 21 – Luciano Benetton: «I referendum? Sono il minimo, qui sta cambiando il
mondo»
Ponzano Veneto. Se dico «referendum», qual è la prima cosa che salta in mente a Luciano Benetton?
«Mah, che in Italia ci prendiamo sempre all’ultimo momento». Più che rassegnato, mister United
Colors sembra quietamente fatalista, come la nebbiolina della campagna trevigiana che gela le finestre
del suo studio. Liscia con il dorso della mano il maglione preferito, creazione della sorella Giuliana, e
premette: «Io intanto rispetto i radicali, da sempre portatori di una visione civile, senza rischi eccessivi.
Rispetto anche il sindacato, che si difende». Rispetto neutrale. «No, no; per me conta una sola
domanda: vogliamo o non vogliamo un Paese moderno? Per me l’oggi è già futuro. Con il mondo che
ogni giorno cambia, a me i referendum sembrano quasi quasi una discussione superata!». Neutrale e/o
liquidatorio. «Trovo fuori di qualunque logica aggrapparsi a qualcosa che o va bene a pochi o riguarda
il passato, mettendo ad esempio in competizione i pensionati con i giovani: è un po’ imbarazzante dire
un sì o un no, ma sappiamo tutti che i giovani sono pronti al sì, cioè ai nuovi lavori e alle nuove
proposte». Un «sì» generazionale. «Sì, ma non solo. Abbiamo visto che, dove vengono applicate le
regole più liberali proposte dai referendum si produce più ottimismo, dunque più crescita sia nel
mercato che nei posti di lavoro. Il referendum smuove un terreno che non dà frutto; le leggi attuali sono
troppo impegnative per un potenziale imprenditore». Produrre ottimismo, lei dice. «Faccio l’esempio di
un settore nuovo: Internet, l’e-commerce. Qua da noi ci sono cinquanta persone che vi lavorano ma che
in pratica potrebbero non avere neanche l’ufficio. Perché sono sempre “in viaggio”, perché potrebbero
lavorare da casa; e questa per noi non è una fase sperimentale: un mondo diverso, già tra noi, già sicuro
a Treviso come a Chicago. Dobbiamo stare molto attenti, che poi non succeda quello che è capitato con
l’inglese nelle scuole…». In ritardo, vuol dire. «Peggio. In molte scuole i ragazzi debbono tuttora
studiare francese perché ci sono i professori di francese! Quando è matematico che tutto il mondo parla
inglese». Se ho ben capito, lei guarda ai referendum cosiddetti sociali da un punto di vista molto poco
italiano. «L’Italia è un puntino, un Paese fra i tantissimi che ci riguardano da vicino, e io sono curioso.
Faccio l’esempio del Giappone, che a prima vista sembrava così distante e atipico: cinque anni fa noi
avevamo in Giappone un ufficio, una società completamente giapponese, al cento per cento. Ma un
giorno mi sono accorto che, nonostante duecento persone, c’era confusione, e ho chiesto se per cortesia
potevano ridurre alcune funzioni che mi sembravano inutili. Beh, mi hanno guardato male e spiegato
che non era possibile farlo perché avrebbero fatto “brutta figura”, uno scandalo, davvero una tragedia
per un sistema che garantiva il posto di lavoro dalla culla alla bara». Cinque anni dopo… «Eh, adesso la
disoccupazione ufficiale è al 4,9 ma molti sostengono che sia al dieci per cento. Nel mercato della
finanza, se una banca deve fallire, bisogna lasciarla fallire: proteggerla significa rinviare la morte». La
globalità è dura. «Le confesso: io sono attento e anche preoccupato. La Benetton produce in un settore,
il manifatturiero, che era considerato maturo già nel 1965, quando siamo nati! Maturo, cioè più adatto a
un Paese sottosviluppato, non “da Europa”, tanto che già allora in Francia e Germania disinvestivano. È
un settore a rischio, precario, in cui possiamo trovare altri cinquanta Paesi al mondo in grado di
produrre le stesse cose. Allora, se non portiamo innovazione, non c’è niente da fare, facciamo una
brutta fine». L’innovazione nelle regole diventa vitale. «Io come imprenditore seguo, debbo seguire il
cambiamento, che avviene a una velocità sempre maggiore. Per questo mi sento triste quando vedo,
anche nei giornali, lo specchio di questioni superate. Superate nel senso che tra un paio d’anni, forse
meno, i problemi saranno già altri». Forse lei allude. Il collocamento, per dire. «I giovani non ne hanno
bisogno. Il curriculum funziona meglio in Internet: il “collocamento”, come noi lo intendiamo, negli
Stati Uniti non c’è». Referendario è anche il part time. «È fondamentale e necessario, per le due parti.

Nei Paesi lanciati è la chiave per donne e giovani. Va liberato». Il nuovo è anche il lavoro in affitto. «È
una via di mezzo tra il curriculum in Internet e il collocamento». Nello scontro sui licenziamenti,
l’imprenditore sembra tornato «padrone». Si è parlato di una lotta di classe alla rovescia. «Per il mio
gruppo è una discussione teorica, perché non abbiamo mai licenziato». Con 7235 dipendenti e 3834
miliardi di fatturato, i Benetton non hanno mai licenziato? «No, mai fatto. Ma, intendiamoci, non mi
scandalizza il licenziamento: siamo stati fortunati». L’idea «americana» del mercato del lavoro divide.
«Rispetto all’America, il problema dell’Europa è la mancanza di velocità: quando i nostri giovani che
studiano negli Stati Uniti ritornano a casa, vorrebbero subito ripartire… Per noi dobbiamo guardare alle
nostre radici, e dunque l’unica cosa davvero importante è far funzionare meglio il nostro Paese». Si può
? «Si può. Il guaio nostro è l’indecisionismo». Secondo Fossa, il Parlamento farebbe ancora in tempo a
decidere, sui quesiti referendari. «No, è impossibile, governo e maggioranza sono troppo precari per
un’avventura come questa. Trovo però, e ci tengo a dirlo, che sia uno spreco di energie dire no ai
referendum, mentre servirebbe molta più elasticità, e una discussione o per capirli meglio o per capirci
meglio». Si potrebbe? «Impossibile è soltanto trovare gente che dica che così va bene!». La pace
sociale, con annessa concertazione, rischia molto. «No, penso di no. Capisco che i sindacati possano
pensare a una sconfitta; in realtà da parte dell’impresa non c’è alcuna volontà aggressiva. Alla fine, una
maggiore flessibilità sarebbe il toccasana per il futuro, che finirebbe con il far ricuperare ci che in
ipotesi si perde». Il capitalismo dalle mani libere semina inquietudini. «Ecco, questa è una visione
pessimistica, ma è un tema. La visione ottimistica dice che l’imprenditore è obbligato allo sviluppo: se
non lo fa, è sicuro che prossimamente non sarà della partita. Ed è una fregatura che l’imprenditore
italiano debba perdere tanto tempo a difendersi dalle leggi. Dall’automobile al grande magazzino, a
tutti i livelli, chi non si sviluppa muore. In sei mesi cambiano mercati collaudati da decenni». Chi
conserva muore, allora. «Vogliamo fare una cosa interessante? Lo Stato dice all’imprenditore: io ti do
tutte le regole che vuoi, ma tu non puoi ridurre di un’unità i tuoi dipendenti! Bene: ciò sarebbe meno
rischioso che dire: qua non si tocca niente. E i giovani, i tecnici, le generazioni del computer, capiscono
che il mondo è un altro, che la conservazione non porta da nessuna parte». Fine della neutralità. La
posizione di Confindustria sui referendum la convince. «Assolutamente sì, la trovo di buon senso. Il no
del sindacato è troppo negativo, anche perché in Italia non vedo aziende cariche oltre misura di
dipendenti: se domani applicassimo i referendum, non succederebbero grandi cose.
Noi, per esempio, non avremmo alcuna rivendicazione da fare con nessun dipendente. Il mio giudizio è
neutro, voglio dire, magari sbagliato ma neutro». Referendum, successione a Fossa: tutto è in
movimento in Confindustria. La scelta del presidente si fa delicata. «A un’istituzione come
Confindustria occorre un presidente di personalità, con molte caratteristiche». Se può elencarle. «Che
sia bravo nel dialogo, innanzitutto. Che sia un imprenditore vero, che tenga in conto il Sud, che sappia
rappresentare i piccoli come i grandi». In ordine alfabetico, Benedini, Callieri, D’Amato… «Sono tre
buoni nomi». Se i referendum puntassero a mostrare i muscoli, i clan dell’uomo forte potrebbero
premere per Cesare Romiti. «No… non credo che Romiti abbia possibilità… nooo». Romiti no. «No, io
punterei sui giovani». Lei sta pensando a qualcuno. «Ad avere alla presidenza qualcuno che porti una
speranza per il Sud: D’Amato è giovane, e come tale sarebbe un rischio maggiore, però ha quindici
anni di esperienza con i giovani industriali e con il centrostudi». La sua bussola sono i giovani. «Sono
coerente. O crediamo al cambiamento o lo sviluppo lo faranno altrove». Che cosa serve ai giovani?
«Do un consiglio. Di appassionarsi, di diventare specialisti, di non lasciar passare l’occasione di
Internet. Consiglio l’inglese, l’ottimismo nel contatto con il mondo, una nuova mentalità: in caso
contrario, saranno spettatori. Non penso più a giovani molto negli uffici e molto nelle fabbriche, ma a

giovani più a ridosso del futuro». Chi frena in Italia, la politica in sé o i governi? «La gestione
complessiva del Paese, molto complicata, poco concreta». In Europa, quale Paese prenderebbe a
modello? «Non avrei dubbi, l’Olanda. Vuole un esempio di regole da noi inconcepibili e in Olanda
realistiche? Da noi i saldi di fine stagione sono vietati fino a metà gennaio e oltre; in Olanda, cioè in
Europa, e con gli stessi consumatori, le vendite di fine stagione scattano il primo dicembre e durano
sette settimane. Loro stanno nella realtà, noi nella burocrazia, che è anche delle associazioni
commercianti: non si sono ancora accorte che nei grandi magazzini i saldi si fanno… tutto l’anno! Non
siamo moderni, e potrei fare mille esempi».
Sui referendum, che cosa raccomanderebbe a D’Alema? «Di non muoversi! Abbiamo bisogno di un
governo che tenga il timone fino al 2001». A sentire gli esperti in materia di lavoro, i quesiti referendari
sembrano promettere tutto e il contrario di tutto. La Corte costituzionale farà chiarezza dove oggi non
risulta. «Credo proprio di sì. In ogni caso, oggi è più dannoso non scegliere che scegliere».
21 gennaio 2000