1999 Aprile 22 Montanelli 90

1999 Aprile 22 – Montanelli 90

La libertà/1

“La libertà è uno di quei beni che si apprezzano solo quando li abbiamo perduti” (da “Storia dei
Greci”, 1959, Rizzoli).

Il vizio/2

“L’università (in Roma antica ndr) era rappresentata dai corsi dei retori. Non c’erano esami, non
c’era tesi di laurea, non c’era dottorato. I costi costavano fino a duemila sesterzi, fra duecento e
duecentocinquantamila lire, l’anno. E Petronio lamentava che non vi s’insegnassero che astrazioni
di nessuna utilità per la vita pratica. Ma essi solleticavano il gusto tipicamente romano per la
controversia, la sottigliezza e il cavillo: un vizio ch’e poi trasmigrato nel corso degli italiani”. (da
“Storia di Roma”, 1969).

Il bipolarismo/3

“Anche un altro elemento giuocò a favore di Cavour (nel 1861 ndr): la storditaggine dei preti che
incitarono all’astensionismo.” Né eletti né elettori “ fu la parola d’ordine lanciata dal loro giornale
“L’Armonia”. “La lotta verte oggi tra Cavour e Garibaldi – esso scrive – tra coloro che combattono
il Papa con le ipocrisie, e coloro che vogliono combatterlo apertamente con l’empietà e la
demagogia. Noi diciamo: “Né l’uno né l’altro; sono tutti della stessa buccia. E ci asterremo”.

Infatti, si astennero. Il successo governativo fu trionfale; mentre, grazie alla diserzione dei cattolici,
scompariva quasi del tutto l’opposizione della destra reazionaria, alla chiesa legatissima. Il
Parlamento diventò praticamente bipartitico, cioè articolato su solo due forze, come tuttora lo sono
quello inglese e quello americano; e i liberali moderati di Cavour, che fin allora si erano atteggiati a
partito di centro, diventarono nella comune accezione la “Destra”.

(da “L’Italia del Risorgimento”, 1972)

La gente/4

“Stavolta Mussolini non tentò di trattenere le squadre, anzi ne vantò le gesta. “In quarantott’ore –
scrisse – abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarant’otto anni di prediche”. Con
il fiuto che lo distingueva Mussolini aveva capito che ormai la pubblica opinione vedeva nel
fascismo, e non nello Stato, l’unica forza in grado “di far andare avanti le cose” e non era più
disposta a sottilizzare sui metodi: lo sciopero generale le aveva fatto paventare il caos. E la reazione
era questa: che l’ufficio tesseramento era sempre più affollato di gente che chiedeva l’iscrizione”.
(da “L’Italia in camicia nera”, 1976)

Appunti/5

Figlio unico, dell’infanzia molto felice Indro Montanelli rimpiange soltanto di non aver ricambiato
abbastanza il grande amore della mamma. Il “monumento al giornalismo” e al 900 è una persona,
un uomo, storie e vita. Un giorno andò in Tv a raccontare la sua depressione fatta di insonnia e
anoressia: “Non dormo, non mangio”, mi disse tre anni fa a Milano. La depressione lo aveva colpito
per la prima volta a undici anni. Forse ereditaria, era il suo sospetto. Ma è sempre guarito; “prima
non vedevo l’altro, poi sono diventato euforico”. Forse, in Montanelli anche la depressione è
toscana, sanguigna; basta leggerlo. Scrive da una vita con un’assiduità senza paragoni, con una
scrittura che si fa leggere da parte a parte, come attraverso un cristallo.

Conservatore per stile, usa la Lettera 32, fino a un paio d’anni fa non aveva nemmeno l’ausilio di un
fax. Quando lasciò un residence per un piccolo appartamento, lavorava senza archivio. “Per fortuna
– mi chiarì – ho una memoria selettiva, che trattiene ciò che mi serve ed è importante, ma butta tutto
il resto. Non ho con me nemmeno i miei libri! Se avessi raccolto tutto quello che so e che ho visto,
potrei scrivere tre articoli al giorno”. Scrive come pensa, come parla, come vive. Il suo segreto è di
essere sempre totalmente Montanelli. L’ho sentito ricordare, con orgoglio e tenerezza: “Il mio
matrimonio è durato quarant’anni soltanto perché io ero uno scapolo e anche lei lo era: abbiamo
vissuto come due scapoli sposati”.

E’ l’italiano più anti-italiano della razza dei Prezzolini e dei Longanesi. O, anche, l’anti-italiano più
italiano, nonostante tutto. L’altro giorno ha tagliato corto con la rabbia accentata della sua
Fucecchio: “Se la classe politica ruba, è perché rappresenta un paese di ladri”.

Tempo fa, mi ha detto: “Mi fanno ridere i Poli. Questo è un Paese povero, come può esprimere
grandi governanti? Mi diceva Ugo Ojietti: “L’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né
posteri”. E’ un Paese di livello modesto, va male come è sempre andata”. Perciò lo ama e lo detesta,
con equanime passione. Il nonno di Indro, Giuseppe Montanelli, bella figura, passò alla storia
unitaria come “la suocera del Risorgimento”. Montanelli lo è dei nostri ultimi quarant’anni: se gli
spararono alle gambe, è perché era spiazzato rispetto alla corrente, Controcorrente , appunto, una
suocera colta e popolare, divulgativa e elitaria insieme.

Le ha viste tutte e tutti. Una volta Mussolini lo chiamò a Palazzo Venezia. Era il 1932, Montanelli
ventitreenne aveva scritto su un giornale un articolo contro il razzismo. Da ex-giornalista, fra l’altro
bravissimo, il Duce leggeva tutto. Convocato Montanelli, gli disse: “Ha ragione, il razzismo è roba
da biondi!”. Sei anni dopo, avrebbe firmato le leggi razziali.

Montanelli si reputa fortunato, perché spesso gli capitò di trovarsi al posto giusto nel momento
giusto con la persona giusta. Come il 3 settembre del 1939, in una cittadina della Prussia, 40 ore
dopo l’invasione della Polonia. “Il Corriere mi telefonò di andare lì e lì io mi trovavo”, mi raccontò
una sera a cena. Peccato non averlo registrato, ma era tanto intensa la mia attenzione che porto il
nastro inciso dentro la testa.

“Arrivò un carro armato – mi raccontò Montanelli – seguito da uno sciame di carri armati. Alcune
auto. Cos’era quello Stato Maggiore! Mai visto un apparato militare come quello tedesco. Quegli
ufficiali, marziali, quelle divise; per invadere la Polonia erano state selezionate le truppe, tedeschi
veri, tutti biondi. Scende Hitler, in calzoni borghesi, con la giacca militare di sottoufficiale con
soltanto la croce di guerra della prima guerra mondiale. Gli occhi da pazzo, occhi non neri, grigi
come quelli di Ciang Kai Shek. Dopo aver chiesto all’ufficiale della Propaganda chi sono, e
informato che sono un giornalista italiano, Hitler mi viene incontro. Come si avvicina, io rinculo di
fronte a quegli occhi, finchè un albero mi ferma, e lì m’inchioda. Lui attacca un discorso per dieci
minuti, lo stesso veemente discorso fatto il giorno prima a Reichstag, ma lo fa a me!, passandomi
sopra, oltre, come se – attraverso me – parlasse all’Italia. Finito, torno a Berlino e telefono di corsa
al corriere: “Ho l’intervista del secolo”. Il direttore mi dice che è pronto, mi raccomanda di scrivere
alla svelta e mi annuncia già il titolo da metter in pagina: “Hitler mi ha detto”. Più tardi mi
avvertono che non se ne farà niente, dopo l’intimidazione del Minculpop (Ministero della Cultura
Popolare, ndr) che aveva ricevuto la telefonata della propaganda di Goebbels: “Hitler non fa
interviste”. Impossibile disobbedire, finì così la mia mancata intervista del secolo”.

Montanelli continua a fare cronaca della Storia, anche se oggi ha materiali per la prima più che per
la seconda. Lo assiste anche lo humor. Conversa per dire cose, non per parlare.

A Milano, preferisce la cucina di Gino Santin, veneziano dalla testa ai piedi, diventato
chiccosamente “Santini” nel cuore di Londra, con un ristorante frequentato anche dai rampolli della
real casa inglese. Montanelli vi incontra un altro suo fedelissimo fa veneto, Giancarlo Aneri,
imprenditore di Legnago, che chiama Indro “il massimo”. Al suo misurato menù Montanelli
aggiunge di tanto in tanto qualcosa che dalla tasca porta al palmo della mano “Guarda -mi
ammonisce un giorno – che questa, anche se sembra, non è cocaina!, ma soltanto integratoti”.

Gli basta una sillaba per dire l’equivalente di un articolo di fondo, per altre penne. Di Mario Segni,
che considera “un galantuomo”, ha scritto sul Corriere: “Purtroppo nomen omen: una sola vocale
distingue Segni da Sogni”. Una vocale, meno di una sillaba.

Confessa oggi: “Io ho 90 anni e non credo più alle riforme”. Mi permetto di ricordargli una storiella
raccontata tanto tempo fa da John Kennedy. Un generale ordina a un giardiniere di piantare un
albero. Il giardiniere gli fa notare che quell’albero è lento nella crescita e che ci vorranno cento anni
per vederlo del tutto cresciuto. Allora il generale intima al giardiniere: bene, piantalo subito, non c’è
tempo da perdere”.

Indro Montanelli, 90 anni e che anni, è come quel generale francese. Ha battuto il tempo, se ne
frega.