1970 giugno 2 Mexico Ra-Ra-Ra

1970 giugno 2 (Il Gazzettino)

Mexico Ra-Ra-Ra

DAL NOSTRO INVIATO
Città del Messico, 1 giugno
Non so che cosa abbia mostrato la televisione italiana per il battesimo dei Mondiali. Ma so con
certezza che soltanto la ripresa « a colori » avrebbe potuto offrire ai telespettatori italiani il senso
giusto di questa giornata. Perchè soprattutto il colore ne è stato il respiro. Avevo visitato lo
« Estadio Azteca » venerdì scorso per l’ultimo « training » dei sovietici. Quel giorno era vuoto: un
vuoto che ti faceva sentire mingherlino, indifeso tra misure colossali di cemento: per 110 mila posti
a sedere, un raggio di 91 metri tra il bordo del prato verde e il confine interno delle tribune, una
verticale di 51 metri tra il terreno e la cornice ultima, in alto. Gruppi di operai specializzati stavano
pulendo i « palchi di preferenza », acquistati dai milionari di « Ciudad de Mexico ». Ne ho visitato
uno: un appartamento. Con bagno, salotto, frigidaire, televisione, cina, la partita come « weekend »
condito di aristocrazia e di molti pesos.

Ieri no. Ieri, dei palchi non s’è accorto nessuno. Ieri in questo stadio costruito sopra la roccia
nera, vulcanica, ci è caduta addosso come lava l’anima di un popolo che conserva ancestrale il
sentimento della morte e che, nei giorni di « fiesta », sa esplodere tutta la propria umanità. Nel
colore, nel nazionalismo, nell’urlo collettivo. In un « Mexico ra-ra-ra », scandito come liberazione
piuttosto che come tifo. Il « Mexico ra-ra-ra » battuto con ogni oggetto. Con un barattolo di birra
sulla sedia di cemento. Con raganelle dorate. Con bastoni corti. Con l’anello del matrimonio sul
poggia braccio metallico. La partita ha portato più silenzio che felicità. La partita ha ricondotto la
« festa » al periscopio sportivo. Prima, solo nelle due ore precedenti alla partita, tutti noi europei
siamo rimasti stupefatti dal ritmo musicale e orgoglioso di questo popolo d’incroci razziali. Popolo
di profili antichissimi, che vuol essere chiamato « nuevo ».

Il colore. Come i dolci piatti di frutta che ci vengono serviti nel guscio dell’ananas, tagliato a
metà. I cartelli pubblicitari, belli persino quelli. I poliziotti. In divisa blu, la faccia meticcia, lunghi
manganelli di legno e molti fucili tenuti con indifferenza, quasi fossero panini. Il cielo, il prato, i
soldati, le bande musicali ci sono sempre stati. Anche a Wembley, quattro anni fa. Ma qui c’è il
popolo: 110 mila persone che non assistono: partecipano. Sono nello spettacolo. Sono soprattutto lo
spettacolo. Divisi in fette di colore: verde bianco e rosso, i colori della bandiera messicana. Chi sta
in queste larghe fette di stadio o è tutto verde o è tutto bianco o è tutto rosso. Dai calzini fino al
foulard. Dove il distintivo di tutti appare il sombrero. Con il mio berretto all’inglese, mi sento
ridicolo, stonato.

Ogni 500 persone, sta una specie di direttore d’orchestra. Gira le spalle al campo, perchè la sua
giornata deve bruciare incendiando gli altri. Dando la battuta, con un simbolo levato in alto: e può
essere un sombrero o una scarpa. Quando alza il braccio e lo cala piegandosi con gli occhi lucidi di
« tequila », tutto il suo settore esplode: « Mexico ra-ra-ra » e quadrati di carta lucida con i tre colori
nazionali sbandierati in autentica frenesia. Non ho mai visto ona cosa simile.

Sono sfilati i soldati della marina con le bandiere di tutti i Paesi affiliati alla Fifa. Sono sfilate le
16 finaliste della coppa Rimet, trasferite in squadre di bambini senza incertezze nel passo con
geometria a lungo studiata. Durante questa seconda passerella, s’è captato l’istintivo orientamento
del pubblico messicano: molte nazionali sono transitate nell’indifferenza. Tra le grandi, la
Germania. Tutte le squadre sudamericane, soprattutto Uruguay e Brasile, hanno ricevuto lunghi

applausi. L’Inghilterra ha conosciuto il fischio, solo in questo caso xenofobo e ostile, di 110 mila
spettatori: i bambini che rappresentavano le bianche casacche di Bobby Charlton e C. hanno avuto
paura. L’Italia quando è passata davanti al Presidente degli Stati Uniti Messicani e a Stanley Rous,
ha raccolto un’ovazione colma di simpatia e di solidarietà latina. Quella che ci era mancata in Cile,
otto anni fa.

In un dantesco « fracasar » di popolo, il lancio di migliaia di palloncini colorati s’è levato lento.
Come per portarsi via, senza dolore, folklore e nazionalismo: e restituire all’« Azteca » la sua
dimensione sportiva. Questo è un mondiale di football: l’altitud e gli ananas, i sombreri e le povere
« favelas », non ce lo debbono far scordare.