1964 luglio 20 Le esequie di Fabbri

1964 luglio 20 (telegramma inviato alle 21.46)

Le esequie di Fabbri (dopo la Corea)

Sunderland parla come un automa. Ripete le stesse cose come un automa. Stringe le mani come un
automa. Ha gli occhietti di vetro, una smorfia inespressiva sulle labbra. Sto osservando Edmondo
Fabbri alla sua ultima apparizione ufficiale in questo lontano angolo d’Inghilterra. Fa impressione.
È suonato, groggy, distrutto, allucinato. Fa pena. “Riferirò ai miei dirigenti e loro mi diranno.”
Diranno, povero Edmondo, che te ne devi andare. Che puoi ritornare a Mantova quando vuoi. E
sono disposti a darti tutti milioni del contratto previsto fino al 1970 purché ti tolga di mezzo. Lo
diranno e avranno quasi tutte le ragioni, perché, presuntuosetto paffutello e sorridente, hai preso in
giro gli italiani per quattro lunghi, eterni, anni. Quattro anni a disposizione: privilegi che nessun
altro commissario azzurro ha avuto nel passato pur di darti il tempo di costruire la “tua” squadra.
Pieni poteri, carta bianca, solo. Per costruire che cosa? Nulla. Solo chiacchiere. Chiacchiere inutili,
tediose. Ti sei persino presa la soddisfazione di far ammonire Helenio Herrera. Ricordi? Ti sei presa
la soddisfazione di battere tutto il mondo in… amichevole. Ma, al momento giusto, quando dovevi
aver pronta l’arma per colpire sul serio, ti sei ritrovato una cerbottana ridicola che sparava fragole e
lamponi. Eppure in un’impresa sei riuscito. Una impresa grande. Di dimensioni nucleari: sei
riuscito a superare i vertici di nullità toccati nel 1962, ai piedi delle Ande, in Cile. Sì perché,
nonostante una sceneggiatura farsesca, l’Italia si era spenta in Cile con toni di dramma reale. Tu no.
Tu non hai raggiunto la nobiltà del dramma. La tua “gestione” è finita in pochade. Ridicola e
umiliante. Abbiamo perso senza cazzotti, senza espulsioni. Ma con minor dignità. Non
dimentichiamolo: sono venuti da Pyongyang quelli che ci hanno cacciato a casa. Sono gialli, brutti e
sconosciuti. Il primo pallone della loro vita lo hanno visto e tastato quattro anni fa. I coreani, povero
Edmondo. Ma la colpa grave non è tua. E’ di chi un giorno incendiò la panchina azzurra di Helenio
Herrera per affidare l’Italia, prima ad un triumvirato impotente, poi ad un uomo che sarebbe dovuto
arrivare a Londra issato su un cavallo bianco soltanto perché aveva portato il Mantova dalla serie C
alla serie A. Quest’uomo eri tu.
Il punto esasperante e indigeribile di tutta la faccenda è che non sia finita in dramma, ma che tutto si
sia svolto, lemme lemme, senza virilità, sul binario fisso del ridicolo. Dal ridicolo non ci si può
salvare. In nessuna parte del mondo. Figuriamoci in Inghilterra, figuriamoci in Italia. La gente che
incontro per strada fa smorfie di disgusto, di disprezzo. “Italy? Ahh…” La gente di Sunderland, di
Durham, di Newcastle non capisce. Non capisce come questa Italia abbia potuto battere la Scozia,
segnare tre gol in una sola partita. Ma, per le strade della “contea”, non incontro solo inglesi.
Incontro italiani. Decine, centinaia, migliaia. Italiani con duemilacinquecento chilometri sulle ruote,
per venire fino quassù a vedere, ad applaudire finalmente questa nazionale che per quattro anni “ha
lavorato seriamente, ha fatto esperimenti di tutti i generi, ha costruito la famiglia: ora siamo
finalmente una “nazionale”.
Sono parole di Fabbri. Le aveva pronunciate in uno dei tanti giorni sprecati al “centro sperimentale”
di Coverciano. Ed ora questi italiani, questa frangia d’urto dell’opinione pubblica, è sbigottita.
Qualche minuto dopo la partita-kaputt con la Corea, ho parlato con alcuni bolognesi che stavano
accasciati sulle poltroncine dell’Ayresome Park: “Questa mattina siamo stati nel college di Durham,
– mi dissero – e abbiamo incontrato parecchi giocatori: noi non siamo giornalisti, quindi parlano e
dicono a ruota libera. Beh, non abbiamo fatto altro che sentire parlare di vacanze, di mare, di casa,

di spiaggia… tutti, dico tutti, non vedevano l’ora che fosse finita. E’ incredibile, ma le giuro che lo
abbiamo sentito noi, da loro, con le nostre orecchie”.
Può essere che, sotto choc, la verità sia stata dilatata, ma il sottofondo esiste, è reale. Il problema è
grossissimo: è quello che ha dettato al settanta per cento la catastrofe. Non il problema delle…
vacanze, ma il problema della preparazione psicologica della squadra italiana. Fabbri è fallito
clamorosamente: innegabilmente. La squadra è partita per Londra da Durham alle 15 (ora di
Greenwich). Tre ore prima, al Centre Press di Sunderland, dove Artemio Franchi aveva
letteralmente trascinato Fabbri per rispondere alle ultime domande. Lo stesso Franchi, rotto il
formalismo ufficiale, aveva fatto questa dichiarazione. Fabbri non era a più di un metro e mezzo,
ma non sentiva assente com’era. “Aveva lasciato la squadra – disse Franchi – il primo luglio a
Coverciano: l’ho rivista a Durham dieci giorni dopo, prima della partita con il Cile. Mi sembrò di
essere capitato in un altro mondo. C’era una tensione spaventosa nell’ambiente, un nervosismo che
filtrava dappertutto. Il fatto è che non esisteva un motivo apparente: i giocatori erano singolarmente
sereni, soddisfattissimi del posto dove erano sistemati. Le amichevoli si erano vinte e la stampa,
suvvia, era tranquilla. Non c’era proprio motivo, ragione. La ragione, se non esterna, era quindi
interna. Il nervosismo nasceva dentro. Ho capito subito che lui (Fabbri, n.d.r.) era teso, contratto:
questa situazione non poteva non contagiare i giocatori. Lo si sentiva nell’aria, sono cose che non si
possono fermare. Adesso lo vedete, è sconvolto, come in stato di incoscienza. Ma perché? Perché,
da cosa nasceva questa paura? D’accordo, forse abbiamo sbagliato anche noi a mettere in calendario
tutte le amichevoli in Italia, ma l’abbiamo fatto per cercare di dare fiducia ai giocatori, di abituarli
al successo, di cancellare il complesso di inferiorità che li paralizza di solito. Forse anche abbiamo
sbagliato a insistere fin troppo, ma c’era l’esperienza cilena alle spalle e poi i calcetti non servono.
Semmai serve il gioco duro, di forza. Non la nevrastenia debole. Avete visto l’argentino espulso e
squalificato: si è fatto cacciare, ma prima aveva eliminato un avversario. Comunque il discorso è un
altro: abbiamo avuto una squadra distrutta dal nervosismo, impaurita, ansiosa. Non si sapeva più
cosa dire a questi giocatori: contro il Cile e la Russia si è detto: “Attenti, sono fortissimi”. Prima
della Corea si è cambiato, perdio: “Questa è una squadretta. Se giocate con la testa, tranquilli, ne
fate cinque”. Abbiamo tentato l’inverso per una volta, visto che l’altro sistema non era funzionato
per niente. Invece, no: sono entrati in campo terrorizzati, con il Cile, con la Russia, con la Corea.
Non c’è stato nulla da fare. Lui (Fabbri, n.d.r.) è andato peggiorando sempre più, sempre più
nervoso, sempre più incontrollabile. La squadra non poteva non accusare questa situazione.
Adesso… mi chiedete come potrà Fabbri ripresentarsi a Coverciano e parlare a dei giocatori, per
altre partite future, con un uno a zero subito dalla Corea? “Effettivamente è molto difficile,
imbarazzante: credo che non si farà”. Non è del massaggiatore o del cuoco questa dichiarazione. E’
di Artemio Franchi, il capo della delegazione italiana. Le sue parole sono un atto di accusa,
inesorabile, sottile, quasi franco, date le circostanze. Un “J’accuse” che ha il valore di una
testimonianza ufficiale, non smentibile, a quello che era stato detto molti giorni fa. L’Italia “off
limits” non era un’invenzione, una montatura artata. Era una terribile, irrefrenabile realtà che ci ha
portati alla débâcle. Fabbri ha determinato una reazione a catena. Oggi posso dirlo: e Sandro
Mazzola che mi aveva confessato la settimana scorsa questa situazione: “Ma se lui (Fabbri) è così
nervoso, come fa a pretendere che noi rimaniamo calmi?” La squadra ha finito col ritrovarsi i nervi
a pezzi. Senza una guida sicura, serena, che placasse dall’alto della sua personalità gli isterismi
facili, le paure insinuanti, i dubbi, le incertezze.
Fabbri è naufragato, sbandato, alla deriva, giorno dietro giorno. Ha accumulato una serie
impressionante di incidenti. Con giornalisti, con fotografi, con giocatori. Ha imposto il coprifuoco

alla squadra. L’ha sotterrata in un’ombra gigantesca di tensione, invece di darle assistenza, aiuto,
guida. Ha cercato in essa la salvezza. Il controllo psichico della situazione gli era sfuggito di mano
il primo giorno. E non c’è stato verso di rimettere in orbita il C.U.. Contro il Cile abbiamo arrancato
sull’uno a zero come se una muta di iene ci stesse braccando. E invece di iene, c’erano i paradisiaci
cileni, placidi, correttissimi, lenti. Ha ragione Luis Alamos, il trainer cileno: “Se non pioveva, non
avremmo perso con quell’Italia.” Tanta ragione che il due a zero lo raggiungemmo a pochi attimi
dalla fine con una bomba dello scoccatissimo Barison, “Eravamo emozionati: sa, la partita con il
Cile, c’era tutta una storia da sfatare”. Passi la partita con il Cile, passino le ubriacature di Rivera,
gli scricchiolii di Facchetti, le bave di Barison. Era il Cile, c’era Lionel Sanchez, “il picchiatore”.
Va bene, amnistia. Ma con la Russia? Il terrore di Fabbri spopola. Non ha coraggio di rinunciare a
Bulgarelli. Ha rinunciato a Rivera solo perché ha paura della stampa. Ma a Bulgarelli no, non ci
rinuncia. E mette dentro la splendida mezzala bolognese malandata, impreparata, fuori fase e fuori
ruolo. Mezza punta dopo quattro anni di esperienza da centrocampista azzurro. La follia pura. E la
follia è paura tenebrosa. Nel frattempo il calvario di Giacinto Facchetti si avvicina al Golgota.
Cislenko gli manda in frantumi in piedistallo del suo prestigio internazionale. I giornalisti francesi,
gli “inventori” (si considerano tali) di Facchetti, hanno la bocca spalancata dallo stupore. Dopo il
gol russo, l’Italia dà lezione di sbandamento. C’è un assenza totale di spina dorsale. Di testicoli. E’
una girandola i figurine senza senso, sbiadite: perché anche i buoni, quelli che ancora si battono,
vengono travolti nell’ondata. Fabbri è in panchina. Non si muove.
Si limita a qualche gridino, a qualche gesto focomelico. E basta. Tutto alla deriva: la “famiglia”, gli
“esperimenti”, la presenzione. La Russia ha segnato la svolta. La ritirata. Non è a caso che subito
dopo la partita il Ministro Corona sia rientrato in Italia dicendo: “La squadra non esiste non è
esistita ne con i cileni ne con i russi”. Rientrò anche Giuseppe Pasquale, lasciando nel vento freddo
e sferzante di Sunderland solo Franchi: “Ci sono persone fatte per i matrimoni e persone fatte per i
funerali”, commentò Franchi. Il funerale con la Corea. Le esequie di Fabbri. La più umiliante
pagina della storia calcistica italiana. Il 1962, al confronto, appare come “giornata radiosa”.
“Ritengo sia stato determinante per la sconfitta l’infortunio a Bulgarelli”, disse dopo Fabbri. Ma
fino al trentaquattresimo, di grazia, quanti gol aveva fatto l’Italia? In cinquantasei minuti non si
può, con una squadra “normale”, segnare un gol alla Corea? Ma scherziamo? Arrivo al punto di
dire, e non mi vergogno, che una panchina appena decente avrebbe ordinato un pareggio anche
numerico degli uomini in campo. La gente ride quando sente che ritorniamo a casa con onore, che
non siamo stati cattivi, che non abbiamo picchiato nessuno. (Bulgarelli si è fatto male e il fallo era
suo. La gamba gli si è torta come tiramolla.) Un fallo duro, “intelligente” non finisce
necessariamente in espulsione. E non credo che il francese Swinte, pur una delle figure più odiose
che mai abbia indossato una casacca nera e leggendario lacchè del Real Madrid, sarebbe arrivato a
espellere uno dei dieci italiani.
Dopo averli maltrattati tutta la partita con una serie di valutazioni disgustose. “L’arbitro è stato
perfetto”, ha detto nell’intervista televisiva a circuito chiuso Choi Dong Ho, segretario generale
coreano… E ci credo. Ma l’arbitraggio non è alibi neppure minimo. Il saggio di sbandata dato
contro la Russia si è ripetuto Middlesbrough toccando finalmente la recitazione perfetta. Mi astengo
per ora da valutazioni tecniche. Mi fermo all’aspetto neurologico. Il nostro fotografo, Lamberto
Londi, ha fissato nell’obiettivo il cumulo di sigarette fumate in novanta minuti da Fabbri. Mi
assicura che saranno state almeno una settantina. Fabbri era al colmo della sua parabola nevrotica.
La squadra in campo a sua immagine e somiglianza. Persino Albertosi ha tremato: in un’uscita si è
lasciato quasi beffare. Janich, sparando in continuazione alla paesana, è riuscito a buttare la palla

fuori dallo… stadio. Facchetti, ahimè, ha toccato il fondo. Se lo avessero avuto al Gallia dieci
minuti dopo la conclusione del girone se lo sarebbe portato a casa il Ragusa per dieci milioni. Tutto
compreso. Di Rivera non parliamo neppure: due lanci nella prima mezzora: un’azione-tiro
spettacolosa nel secondo. Stop. Chiuso. Di Rivera cito solo il giudizio testuale di H. Nielsen, l’ex
mediano dell’Atalanta, che segue i mondiali per il giornale danese “Politiken”: “è uno straccio”. E
non ho capito perfettamente, data la pronuncia, se volesse dire “strazio” o “straccio”. Il concetto in
ogni caso non cambia. Fabbri era in panchina, in un nugolo di sigarette. Quando la barella strappò
all’Italia il suo uomo più positivo (in assoluto, assieme a Burgnich), era invece al centro del campo.
Prese Mazzola e gli disse: “Torna indietro tu a fare la mezzala: Rivera gioca di punta, centravanti”.
Mazzola fece sì e cominciò a correre come un pazzo per tutto il campo. Si diede da fare e bene per
dieci minuti, poi si afflosciò come un pallone bucato. Rivera non toccò palla. Coerenza di Fabbri:
con la Russia aveva fatto fare il Rivera a Bulgarelli. Con la Corea, sparito Bulgarelli, il Mazzola a
Rivera e il Rivera a Mazzola.
La conclusione è una sola: le testimonianze (Franchi, giocatori), le partite (tutte), la vita nel college
(conferenze stampa, incidenti con Fabbri) chiudono il quadro “neurologico” la mancanza di
esperienza, il compito superiore a suoi limiti hanno distrutto Edmondo Fabbri. Lo hanno
schiacciato. Non solo ha saputo dare carica, mordente, rabbia, determinazione agli uomini, ma li ha
personalmente deconcentrati lasciando trasparire quotidianamente la sua insicurezza, la sua paura,
la sua incertezza. Psicologicamente Fabbri non ha retto. E non c’era da stupirsi ora dopo i
contorsionismi, l’antipatica prosopopea e l’assoluta mancanza di “savoir faire” che lo ha portato,
prima dei mondiali, alla rottura con Mario Corso. Ai nonsenso con Poletti, alla “figura-Anzolin”,
alla presa in giro di Riva (per poi portarlo in viaggio-premio e chiedergli quasi scusa con questa
frase: “sì, con te forse ho un po’ di torto”).
La mancanza di grande personalità, sostenuta artificiosamente con il mito della “sua coerenza”, si è
fatta sentire proprio al primo grande appuntamento. I russi hanno uno psicanalista al seguito. In
queste condizioni a noi sarebbe servito uno psichiatra. Questo è il clima di nevrastenia sotterranea e
palese che ha fatto ponti d’oro alla tragedia azzurra. Una tragedia, sia ben chiaro, anche tecnico-
tattica. Non solo mancati gli errori. Alcuni grossolani.
1) Italia-Cile. Nonostante le indicazioni contrarie di tutte le partite preparatorie, Fabbri insiste su
Rivera, fisicamente inconsistente (in Cile Mazza non lo fece giocare perché aveva la pressione
bassa. Passano gli anni, ma… la pressione non cambia.) Insiste su un giocatore da ricostruire e
rischia due volte: di rovinare la partita favolosa di Bulgarelli con l’appoggio nullo previsto, di
Rivera. E di ritrovarsi con la squadra senza una collaudata soluzione di riserva (Rizzo) alla
formazione che ha in testa da anni (con Rivera). Per fortuna Sanchez e Foilloux “non hanno cuore”
(sono parole di Alamos) e… pugno. E si vince.
2) Italia-Russia. Bulgarelli non sta bene… ma gioca. Non deve avere molto fiato nei polmoni,
Fabbri lo sa. E lo mette a fare la mezza punta. Lodetti è il regista. Juliano, centrocampista, non
esiste per il C.U. “Credevo di giocare, sia con la Russia, sia con la Corea – ha detto Juliano prima di
partire per l’Italia – ma è meglio non parlare”. Sì, è meglio non parlare di questa partita, dove, con
un centrocampo debole, si lascia in tribuna Juliano e dove, con una mezzala “ferita”, si cambia
Perani (che torna e costruisce) con Meroni (solo punta). Uno a zero e camminare. Il cielo di
Sunderland è rosso come sangue. Quasi ci siamo. Ha lo stesso colore dei cieli… cileni… irlandesi,
svizzeri d’altri tempi. Quasi ci siamo.
3) Italia-Corea. Ci siamo. Ho scommesso… la ruota di scorta che vinciamo per quattro a zero. Tutti
gli italiani, nonostante la delusione-russa, sono certi della vittoria. Illusione. Fabbri, come sempre

del resto, non ha dato la formazione il giorno prima della partita anzi, un giornalista italiano gli ha
fatto avere “per via anonima” una formazione piena di frecce con compiti per ciascun giocatore.
Alla conferenza stampa è scoppiata una mezza bagarre. Fabbri ha insultato un po’ tutti, uno in
particolare. Ma non è quello della formazione… quando scende in campo quella vera, il sangue non
scorre più. Rivera, non Rizzo. Janich, non Salvadore. Guarneri, non Rosato. Pascutti, Meroni e
Lodetti epurati. C’è Fogli. Chiedo a Rosato: “Ma avevi qualcosa?” “Quasi niente, anzi niente direi:
un leggerissimo risentimento all’inguine.” “E Salvatore?” “Credo niente” “Allora vi ha fatti
riposare per i quarti?” “Non possiamo parlare. Scusami”. Rosato e Salvadore hanno riposato per i
quarti, riposeranno quattro anni. Fabbri ha messo in campo una formazione quasi-caos in difesa, sul
tipo di quella anti-Austria a San Siro. Penso ad una cosa: il Brasile ha vinto i mondiali del ’62
usando complessivamente dodici uomini. Con la partita “coreana” Fabbri ha già schierato uomini.
Ed ha ignorato completamente le uniche varianti decisive e opportune: quelle del centrocampo e
regia. Rizzo per il fantasma di Rivera. Juliano per l’infortunato Bulgarelli (con la Russia). La difesa,
già rinnovata in Landini, sbanda da tutte le parti. Prendiamo un gol per tre tackle persi uno dietro
l’altro da Rivera e alla fine. Senza Bulgarelli abbassiamo le persiane.
Ok North Korea… il pubblico inglese fa bene ad impazzire per te. Ci hai calpestati, umiliati,
beffeggiati: potevi segnare altri gol. Perché non li hai fatti? Almeno non restava che il suicidio.
Invece hai continuato a correre imprendibile come il vento, sfiorando le casacche azzurre madide di
bile, di vergogna, di pianto. Sì, perché la Corea ha vinto correndo.
Il doppio, il triplo di noi e la preparazione? La splendida preparazione fisica? Ma se dopo
centottanta minuti di gioco siamo costretti a far riposare gli uomini (Salvadore, Rosato, Lodetti)
che preparazione è? Non tiriamo in ballo il logorio del campionato: “Basta con questa buffonata del
campionato duro”, ha esclamato Franchi, “non facciamo ridere, per carità”. Abbiamo il libero, ma
lo hanno anche gli altri (Cruz il Cile, Shin Yung Kyoo la Corea, Shesternev la Russia). Ma
attacchiamo meno di tutti. E corriamo soltanto più del Cile “come back Italy” lo meriti
abbondantemente. Lasciamo ai soldati di Corea l’onore di battersi a Liverpool con Eusebio, il
nuovo re. Noi ritorniamo a casa: ci aspettano gli spaghetti, il mare, le spiagge, le vacanze. Non è
questo che si voleva dalla World Cup ’66? “L’unica possibilità di Salvarci – ha ridacchiato Bertini
– è che la Corea vinca i mondiali”. Speriamo. E’ triste, eternamente amaro. Come se si trattasse di
una “espulsione”, piuttosto che di una eliminazione ordinaria. I nostri giocatori non sanno lottare,
soffrire, morire in campo. Sono in buonafede. Credono di lottare, ma non sanno cosa significhi.
Regaliamo a qualsiasi avversario il trenta per cento delle nostre chances, che restituiamo
regolarmente in amichevole. Nel 1930 Benito Mussolini promise l’esenzione dal servizio militare,
ville e doni, agli azzurri, se fossero riusciti a battere l’Inghilterra a Wembley. L’Italia perse per tre
reti a due, ma disputò una favolosa partita. Altri tempi. Eppure ci deve essere la medicina (o il
medico) per guarire il male.
La maggioranza, individualmente, ha temperamento sufficiente. Riva, durante l’incontro con l’Urss,
ha picchiato un paio di spettatori. E’ questione di “influenze” anche. Fabbri non ha fatto nulla. Ne a
quattrocchi ne dalla panchina, per raddrizzare una tendenza. Il primo ad avere bisogno di
raddrizzamenti sarebbe stato lui. Mancanza di fascino, di personalità. Pensate solo a una cosa:
Fabbri è arrivato a Londra con un 19 a 1 quoziente reti. Ma in nessun campo d’Italia ho sentito una
volta scandire il suo nome dal pubblico. Nemmeno dopo un sei a zero. Tutti i mali sono cominciati
una estate torrida quando il vento infuocato e paradossale dell’antidoping si abbatté su Helenio
Herrera. Gli tolsero subito il distintivo di C.U.. Complesso di castrazione italiota. E siamo arrivati
in Inghilterra con l’uomo sbagliato che ha scontato in un pomeriggio avanzato e freddo tutti i suoi

errori remoti e immediati. Tecnici e psicologici. Tutto è finito. Adesso è proprio finito. Erano le
(ora inglese) di martedì diciannove luglio, a Middlesbrough, quando Albertosi andò in fondo alla
rete a raccogliere il pallone di piombo. L’avventura azzurra, un’avventura senza progresso, era
consumata. Così come il destino di Fabbri Edmondo. Addio Sunderland. L’Italia arrossisce, abbassa
gli occhi e se ne va. Sorry.