1984 ottobre 24 Per la mafia non basta una retata

1984 ottobre 24 – Per la mafia non basta una retata

La retata anti-mafia provocata dalla confessione del boss Tommaso Buscetta è un’operazione di forte
significato perché dimostra due cose importanti. Che anche l’omertà ha le sue crepe e che lo Stato,
nell’utilizzare crepe e indagini, è ancora in grado di riprendere in pieno l’iniziativa dopo la tragica
frustrazione che usciva fuori come il sangue dagli assassinii del carabiniere Dalla Chiesa e del
magistrato Chinnici, entrambi simboli della resistenza dello Stato di diritto.
L’efficienza di un’operazione realizzata senza fuga di notizie e l’ampia collaborazione internazionale
lasciano intravvedere un salto di qualità nella repressione di fenomeni in grado di esaltare tradizione e
tecnologia del delitto, un costume antico e le ultimissime forme di organizzazione. Se la mafia è un
nemico molto difficile, le armi per combatterla debbono essere più aggiornate.
Proprio il clamore che ha accompagnato lo svilupparsi della maxi-retata rischia tuttavia di provocare un
pericoloso equivoco, cioè l’esatto contrario di quanto si augura chi è molto coraggiosamente impegnato
a segare le radici del «sentire mafioso». Quando si dà per scontato o per probabile che l’operazione
risulterà «decisiva» nel risolvere un secolare problema italiano, forse si dimentica un particolare non
trascurabile. E cioè che la mafia è dura a morire perché non è un’associazione a delinquere come altre,
ma qualcosa di più, di stampo diverso, in grado di armare un costume o meglio la cultura non tanto
dell’anti-Stato quanto dell’extra-Stato, un modo di amministrarsi in autonomia, secondo ordine
gerarchico parallelo allo Stato.
Con la mafia non si tratta di sgominare una banda: chi s’illude che la sfida sia questa, commette un
grave errore, perché finisce con il banalizzare il fenomeno riducendolo al normale livello di ordine
pubblico. Non è così, e la verità diventa ancora una volta comodamente leggibile dalla confessione del
boss per così dire pentito, quando descrive la «struttura» della mafia oggi, gangsteristica e insieme
territoriale.
Il quartiere ha la sua «famiglia»; la famiglia è composta da uomini d’onore e soldati, da consiglieri e
naturalmente capifamiglia. Al di sopra della famiglia, la «cupola» con capimandamento e
capicommissione. Le due anime della mafia, arcaica e moderna, convivono come si deduce anche dal
banale indizio di etichette appiccicate negli Usa: «pizza connection» chiamano oltre oceano il reticolo
della droga di mafia.
Se le cose stanno così – com’è certo – non può bastare una retata per quanto brillante e provvidenziale
a suscitare scomposti ottimismi. Contro una cosca mafiosa può bastare una retata; contro il sentire
mafioso dentro il quale si nutre la cosca sono necessari mutamenti civili, che diano voce e forza
soprattutto ai siciliani che sentono la mafia come una terribile gramigna.
«Bisogna respingere qualsiasi forma di corruzione», ammoniva Carlo Alberto Dalla Chiesa. All’origine
della mafia, disse un giorno Scalfaro, «è lo Stato che non esiste». Ma già all’inizio del secolo Luigi
Sturzo, il sacerdote che fondò il partito popolare, denunciava con chiarezza: «La mafia oggi serve per
essere domani servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia e afferra anche a Roma, penetra
nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio».

La retata vale soltanto quale mezzo, mentre la vera arma è civile. Chi sente mafioso non crede nello
Stato, ma lo Stato sa rendersi credibile? Il cammino va percorso assieme ai giovani, con tenacia.

ottobre 1984