2001 ottobre 7 Un quesito mal posto

2001 ottobre 7 – Un quesito mal posto
Né sì né no, semplicemente oggi non andrò a votare. Detesto astenermi, anzi non l’ho mai fatto in vita
mia, ma questa volta lo considero a malincuore il solo atto di coerenza con il federalismo. Mi sono
stufato tanto del referendum (del centrosinistra) quanto della devolution (del centrodestra), nessuno dei
quali presenta qualcosa di costituzionalmente storico. Pane al pane e vino al vino: scomodare la storia
della Repubblica è una storica presa per i fondelli. Il centrosinistra abusa del termine federalismo, che
nel testo della riforma proprio manca, assente, contumace, invano ricercato. I sostenitori del sì spiegano
che le parole non contano e che, al contrario, occorre badare soltanto alla sostanza; dunque, pur
innominato, sarebbe federalismo con tanto di marchio di fabbrica. I casi sono due. O in Parlamento
giocano, rinunciando a chiamare per nome le cose così come stanno, e in tal caso ci troveremmo di
fronte a un inedito caso di schizofrenia da riforme. Oppure quel nome manca proprio perché quella
cosa manca. Il secondo è per l’appunto il nostro caso: non l’hanno chiamato federalismo perché
federalismo non è. Scelta allora onesta, oggi sommersa dalla propaganda: uscito dalla porta del
Parlamento, il termine federalismo rientra quatto quatto dalla finestra del referendum. Così è,
l’ennesima occasione mancata, dalle bicamerali ai referendum. Con un esempio, faccio una previsione
tutta a mio rischio e pericolo perché verificabile sul territorio, a contatto di mano. Se passa la riforma, il
Nordest se ne accorgerà poco o nulla. In Trentino e in Alto Adige/Südtirol per niente; nello «speciale»
Friuli-Venezia Giulia per niente o quasi; pochissimo anche in Veneto, nonostante sia un sottoprodotto
regionale (dicesi: «ordinario») rispetto a Bolzano, Trento e Trieste, e nonostante stia dimostrando da
decenni grandi aspettative di autonomia. L’Italia del 2001 continuerà in ogni caso ad assomigliare,
come copia conforme, a quella del 1948: due mezze competenze in più e un passetto di decentramento
non riformano minimamente la forma dello Stato. Su questo non ci piove, pur con tutte le buone
intenzioni. Gli statuti regionali del Veneto, sia nella versione-Galan che in quella-Cacciari, sono un
anno luce più in là rispetto al referendum di domani! Non solo: un disegno di legge recentemente
presentato dal centrosinistra veneto dimostra che la soglia minima del federalismo prevede la riforma
radicale del fisco, la sostituzione del Senato con la Camera delle Autonomie, la ristrutturazione della
Corte Costituzionale. Tutta roba ignota al referendum ma, si badi bene, anche alla devolution. Il
referendum di domani, come la devolution di dopodomani, sono due aborti istituzionali. Si obbietta che
è sempre meglio il poco che il niente, dimenticando il peggio che può accadere, e cioè il federalismo di
partito, come dire che il federalismo smentisce sul nascere la sua natura di «patto». Altro che patto!
Referendum di sinistra, devolution di destra. Insomma, il quesito vero è sempre questo: gli italiani
vogliono lo Stato così com’è! Se sì, smettiamola una buona volta con il riformismo, il federalismo, le
storiche date, tutte parole piene d’aria come dice in questi giorni un testo teatrale famoso. Se invece
vogliamo tentare una cosa seria, unionista in alto e federale in basso, che manda in pensione tutti e tre i
tipi di centralismo all’italiana (sabaudo, fascista e repubblicano), allora sarebbe indispensabile mettere
in moto un processo alto, forte, davvero storico nell’oltrepassare gli schieramenti. Un by-pass per
rimettere a nuovo il cuore dello Stato, dalla Sicilia al Nordest. Fra l’altro, è scomparso ogni pericolo.
La secessione fa parte del folklore locale, la Padania torna a indicare un’area geografica, Umberto
Bossi diventa vesuviano e, abbandonate le valli bergamasche, recita «Io vulesse truvà pace…»
dell’immortale Eduardo De Filippo. Cosa si vuole di più da quest’uomo già maturo per intonare «O
sole mio» a Pontida? Vedi Bossi, e poi muori. Cessata l’emergenza, sarebbe il momento ideale per una
bella Assemblea Costituente, un annetto mirato e via, al solo scopo di rifare la Costituzione là dove è
vecchia, non ha funzionato o è diventata lettera morta. Soltanto questa revisione potrebbe semmai
chiamarsi federalista, per dar vita alla Repubblica federale italiana. Una Costituzione dev’essere larga

d’ispirazione e di consenso, non affidarsi a maggioranze all’ultimo voto, buone per la politica non certo
per l’architettura delle nostre Istituzioni, dal Comune al Quirinale. Se vuoi davvero federare i poteri, è
necessario un ideale da padri costituenti, impegnati a lavorare per il futuro non per una legislatura,
ciascuno con il suo progettino pseudo-finto-falso federalista, che al fisco totalmente centrale potrà
soltanto aggiungere tasse in proprio, addizionali e sovraimposte. E sarebbe questo federalismo? Per
questo, bastavano i decreti Bassanini. Capisco, ci mancherebbe, tanto i sì quanto i no, ma nel mio
piccolo preferisco non votare. È strano, molto italiano: un referendum su una parola che non c’è
(federalismo) e un progetto su una parola inglese (devolution). L’Italia può aspettare.
7 ottobre 2001