1988 settembre 15 Diario d’un semplice soldato

1988 settembre 15 – Diario d’un semplice soldato
In occasione del centenario della fine della Grande Guerra, vi proponiamo il diario scritto da
Abele, il padre di Giorgio Lago, e pubblicato nel Gazzettino nel 1988.
1988 settembre 15 – Diario d’un semplice soldato
Abele Lago, classe 1898, fu chiamato alle armi il 28 febbraio del ’17 e destinato alla VI
compagnia automobilisti dell’Artiglieria a cavallo. Oggi compie novant’anni. Ha scritto di suo
pugno questo diario a posteriori di soldato semplice (come grado) o, se vogliamo, di semplice
soldato (come cuore). Perché furono milioni di semplici soldati come lui che compiendo il loro
dovere con serena consapevolezza favorirono la Vittoria.

Settant’anni non sono bastati: nè a cancellare il ricordo di glorie, eroismi, lutti e dolori; nè ad
esaurire le analisi storico-militari di quel tremendo cataclisma mondiale che avrebbe allungato
ombre funeste su tutto il XX Secolo. Ecco perché, accanto al rinnovarsi di raduni, celebrazioni
patriottiche, rievocazioni, anche l’editoria continua ad arricchirsi di libri e documenti della
Grande Guerra, su quella che noi veneti, friulani, giuliani e trentini ben sappiamo chiamare «La
Nostra Guerra».
Ma è lecito chiedersi: chi, a distanza di quasi tre quarti di secolo, può conoscere ancora ricordi
personali, diretti, lucidi di quegli avvenimenti? L’elenco dei superstiti si accorcia giorno dopo
giorno, eppure tra di loro c’è chi ha il raro privilegio di conservare impresso, come su un nastro
magnetico, il film della «Sua Guerra». E’ il caso del signor Abele Lago.
Classe 1898, fu chiamato alle armi il 28 febbraio del ’17 e destinato alla VI compagnia
automobilisti dell’Artiglieria a cavallo. Oggi, 15 settembre, compie novant’anni. Ha scritto di suo
pugno questo diario a posteriori di soldato semplice (come grado) o, se vogliamo, di semplice
soldato (come cuore). Perché furono milioni di semplici soldati come lui che compiendo il loro
dovere con serena consapevolezza favorirono la Vittoria.

In occasione del centenario della fine della Grande Guerra, vi proponiamo il diario scritto da
Abele, il padre di Giorgio Lago, e pubblicato nel Gazzettino nel 1988.
1988 settembre 15 – Diario d’un semplice soldato
Abele Lago, classe 1898, fu chiamato alle armi il 28 febbraio del ’17 e destinato alla VI compagnia
automobilisti dell’Artiglieria a cavallo. Oggi compie novant’anni. Ha scritto di suo pugno questo diario
a posteriori di soldato semplice (come grado) o, se vogliamo, di semplice soldato (come cuore). Perché
furono milioni di semplici soldati come lui che compiendo il loro dovere con serena consapevolezza
favorirono la Vittoria.

“Quindici settembre del 1914, compio oggi 16 anni e sento i primi sussurri di guerra. Le masse sono
calme, ma già frange di interventisti si agitano a favore della Francia, mentre il miraggio di Trento e
Trieste infiamma i giovani.

Nel 1915, le agitazioni pro intervento si fanno sempre più vive. Molti pensano che con l’entrata
dell’Italia nel conflitto l’apparente equilibrio delle forze verrebbe rotto a favore dell’«Intesa», per cui
la guerra finirebbe in 3 mesi. Si mobilita, e noi ragazzi si va lungo la ferrovia Padova-Treviso a veder
transitare treni carichi di truppe e materiale bellico diretti verso il Friuli.
Il 24 maggio 1915, la guerra viene dichiarata ed il vecchio Beltrame illustra nella Domenica del
Corriere l’immagine delle nostre truppe che sfondano le sbarre del confine. Nell’estate sosta un paio
di giorni, a Tombolo, paese del Padovano debito al commercio del bestiame, un battaglione di giovani
carabinieri. Sono ragazzi, robusti, pieni di vita. Si viene a sapere, dopo qualche giorno, che sono stati
quasi tutti falciati sul Pogdora dalle mitragliatrici nemiche. Si tagliano i reticolati con le pinze e si va
all’assalto! Cominciano ad arrivare a raffica comunicazioni di decessi di militari, richiamando la
gente alla tremenda realtà.
Inverno 1916. Arriva il freddo, rigido e nevoso. Le sofferenze dei militari in trincea, esposti al gelo ed
alle intemperie, sono tremende e madri, spose, sorelle vanno a gara per confezionare indumenti di
lana, da spedire al fronte.
Maggio 1916 il generale austriaco Conrad ci dà una tale spallata sull’Altopiano di Asiago che per
poco non riesce a scendere in pianura. La gente preoccupata, ma fiduciosa; difatti salava la situazione
un massiccio celere spostamento di truppe automontate dal fronte dell’Isonzo al settore Astico-Brenta.
I soldati compiono prodigi di valore. Noi ragazzi siamo in strada a salutare le truppe di passaggio e ad
incoraggiare.
Estate-autunno 1916. Leggiamo sul «Gazzettino» di allora – passato di mano in mano – di feroci e
sanguinose battaglie che si svolgono sul Carso, sul Sabotino, e a nord di Gorizia. Si prende Gorizia,
ma in effetti nulla avviene di decisivo, mentre le perdite sono enormi.
28 febbraio 1917. Sono chiamato alle armi e assegnato alla VI compagnia automobilisti del regg.
Artiglieria a cavallo – sede Mantova. La caserma Virgiliana di Mantova è sovraffollata. Vi scoppiano
2 casi di meningite cerebro spinale, per cui 900 uomini vengono trasferiti a Castiglione delle Stiviere.
Io rimango in caserma a Mantova e assisto al terribile scoppio del vicino grande deposito di
munizioni. Al momento dell’esplosione della polveriera la gente, che ha sgomberato per precauzione la
città, è tutta in piazza Virgiliana, ma per fortuna non succede nulla di grave.
In marzo, vengo avviato all’Autoparco di Padova. Due mesi dopo, sono assegnato al 44°, autoreparto
e si parte per il fronte orientale. Si fa tappa a Castelfranco V., in piazza Giorgione, dove un Capitano
mi caccia in prigione tenda, con altri 10 commilitoni perché ci siamo allontanati un centinaio di metri
per visitare dei negozi. Per 3 giorni un commilitone, autonoleggiatore di Padova ed inesauribile
barzellettista, ci diletta con le sue trovate, quindi si parte.
Ci si sistema nella zona di Manzano. Il rancio è costituito prevalentemente da un pezzo di carne in una
gavetta di brodaglia e a cui il fante ha appioppato un nomignolo particolare «Sboba». Si dorme in
camion sull’apposito telo branda. Il camion è un 18P Fiat a gomme piene, della portata di circa 30
quintali. E’ male usabile nelle strade o stradicciole di montagna a curve strette, data la limitata misura
della sterzata, il che rappresenta un pericolo notevole specie nei trasporti truppa.
La prima volta al fronte

Primavera 1917. Col primo viaggio riforniamo batterie a Gorizia – città. Costituiamo una colonna di
una decina di macchine al comando di un sottotenente. Nessuno è mai stato al fronte e così prendiamo
per la prima volta contatto con una certa situazione. Arriviamo a notte fonda e l’ufficiale è il più
eccitato di tutti. Minaccia quanti osassero accendere una sigaretta. Il nemico ti vede!
Passata la prima impressione, nei viaggi successivi a Gorizia si va, sempre di notte, con la massima
disinvoltura. Si familiarizza presto anche col pericolo. L’autoreparto si sposta in un prato lungo viale
Venezia di Udine nelle cui vicinanze c’è il grande deposito di munizioni di S. Osvaldo, dove di solito si
carica.
Corre voce che l’alto comando pensi ad una azione risolutiva per la conquista della catena dei monti
Santo, Vodice e Cucco per poi dilagare sull’altopiano della Bainsizza a sfociare nel vallone di
Chiapovano.
L’azione inizia il 19 agosto 1917 e dal mare a Gorizia – Caporetto – Plezzo si scatena un inferno. I
nostri, dopo una tremenda preparazione di artiglieria passano l’Isonzo a Canale, Mortko, Auzza e
dopo furiosi combattimenti, riescono a conquistare i 3 monti ed a irrompere sull’altopiano, catturando
prigionieri e cannoni fra cui un 305. Le artiglierie leggere si spostano in avanti per seguire le fanterie
che avanzano e noi pure dobbiamo trasferirci continuamente in avanti per il rifornimento di munizioni.
Con una decina di camion carichi passiamo l’Isonzo a Plava diretti alla selletta del Cucco da dove si
sfocia poi sulla Bainsizza; ma arrivati in prossimità della selletta, per proseguire dobbiamo attendere
che il Genio Zappatori renda transitabile un tronco stradale di circa 300 m.
Splende una luna bellissima che ci illumina uno spettacolo dei più macabri e tragici: la triste visione
dei bianchi scheletri dei caduti nella precedente azione del maggio e rimasti insepolti fra le due linee
contrapposte. Si sente il fetore provenire da qualche caduto nella battaglia in corso non ancora sepolto
e in via di decomposizione. Entriamo quindi nella zona in cui si sta svolgendo la battaglia.
I caduti sono così numerosi che è impossibile dar loro sepolture singole. Dato anche il sole d’agosto
che affretta la decomposizione dei corpi, questi vengono collocati in grandi fosse comuni con infisse
sopra 2 tavole in croce con la scritta «Morti per la patria».
La visione dei begli occhi spenti di un s.tenente degli alpini non mi lascerà mai. Una scheggia di
granata gli ha asportato, con un taglio netto, una fetta di cervello senza deturpare la bella faccia di
gagliardo fanciullone. Se lo vedesse ora sua madre! Ma chi mai ha inventato la maledizione della
guerra?
Bere l’acqua arrugginita
L’altopiano della Bainsazza è arido e arso. L’acqua alla truppa viene portata dall’Isonzo con
autobotti. Quando riescono ad arrivare, e in giro c’è tanta sete!
Una notte sulla piana di Ravne mi giunge all’orecchio una voce conosciuta ed a tentoni raggiungo la
persona. E’ la voce di un mio amico sottotenente, assetato alla disperazione: in un baleno mi beve
l’acqua arrugginita del serbatoio che serve al raffreddamento dei ceppi dei freni. Non potrei
trattenerlo.

Un giorno ci comandano di trasportare 5 camion di proiettili da 75 nella «Conca di Britof», punto
nevralgico ai piedi del S. Gabriele e sotto il tiro diretto delle armi nemiche. Si parte dal deposito di S.
Osvaldo di Udine. Si procede lentamente dato l’intasamento delle strade; si passa l’Isonzo e si arriva
alla meta quando sta per albeggiare. Sul posto dovevamo trovare gli artiglieri incaricati dello scarico,
ma non si vede nessuno. Il carabiniere di guardia ci avverte che con l’alba il nemico ci scoprirà e ci
fulminerà. Ci implora di fare presto.
Non sono allenato a lavori pesanti e le cassette dei calibro 75 pesano; ma a costo di spezzarmi la spina
dorsale riesco a scaricare in tempo e gli altri fanno altrettanto; quindi ci allontaniamo infilando una
strada incassata, mentre poco lontano crepita una mitragliatrice.
Sempre sulla Bainsazza un’altra colonna del reparto deve passare a qualunque costo su un tratto
scoperto e fortemente battuto. Al segnale del carabiniere parte dal punto coperto una macchina per
volta mentre squadre apposite sono pronte per sgomberare la strada. Qualche macchina viene colpita,
ma senza perdite umane.
Durante la battaglia i servizi verso l’altopiano della Bainsazza sono sempre intensi e impegnativi.
Scaricate le munizioni in batteria nei camion vengono accolti i feriti trasportabili che avviamo ai posti
di medicazione del fondo valle, ai piedi del Vodice e del Cucco. Perdono sangue ma, strano a dirsi,
non si lamentano, anzi qualcuno esce con grida di gioia perché finalmente si avanza.
I posti di medicazione stanno in lunghe e capaci gallerie dove file di medici dai camici insanguinati
lavorano in un’atmosfera che sa di tregenda. Agli imbocchi delle gallerie fra un via vai di
autoambulanze e di camion, c’è un mare di barelle con giovani sanguinanti che aspettano il loro turno.
E’ una visione che suscita i brividi e fa maledire tutte le guerre.
Dopo giornate di lotte terribili la battaglia va perdendo vigore. I nostri sono giunti quasi al margine
ovest del Vallone di Chiapovano, ma resiste il bastione del S. Gabriele che impedisce un’ulteriore
espansione. La vetta passa di mano in mano fra un succedersi di attacchi e contrattacchi, per cui il
Comando italiano ci prova con gli Arditi, che costituiscono un nuovo corpo d’assalto «O la va o la
spacca».
Li carichiamo verso sera nella zona di Manzano, meta il S. Gabriele. Poi assalto notturno, lotta a
coltello; quindi trasporto dei superstiti alla base. Durante i viaggi in camion cantano una canzone che
farà storia: «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, nella vita nell’asprezza il tuo canto squilla
e va».
Un giorno transito in camion fra due file di soldati, credo della Brigata Sassari, che marciano
protestando. Stanno tornando in linea e accusano il Comando di usare troppo spesso la brigata come
tampone al debole comportamento di altri reparti.
Gli ufficiali cercano con molto tatto di calmare gli animi, ed a quanto mi risulta la protesta si smorza
senza spiacevoli conseguenze. Con l’autocolonna passo spesso da Dolegna, zona di brevi riposi per i
fanti della seconda Armata. C’è sempre grande animazione e particolarmente intensa attorno ad un
fabbricato con 2 scale: su una fanno la coda gli aspiranti al…sesso, sull’altra scendono i soddisfatti.
Durante e in preparazione delle battaglie il servizio di noi autieri si fa massacrante perché le batterie
vanno rifornite a qualunque costo. Si esce quindi con qualunque tempo per strade intasate e inadatte

per cui si resta fuori anche 30 – 40 ore di seguito. Non c’è tempo per riposare e allora il sonno
traditore fa le sue vittime. Senza che ci si accorga si finisce fuori strada o peggio in un burrone.
Siamo vicini a Gorizia e stiamo recuperando una macchina uscita di strada quando sopraggiungono
alcune auto con Re Vittorio e alcuni generali. La strada è ingombra e il Re assiste paziente a tutto il
lavoro per il riporto in strada della macchina, elogiandoci poi per l’opera svolta.
Un boato spaventoso
Un pomeriggio stiamo scendendo con la colonna dalla Bainsazza quando ci coglie un boato
spaventoso – direzione Udine. Il pensiero corre al gran deposito di S. Osvaldo e purtroppo il sospetto
si avvera. Lo scoppio ha distrutto grandi quantità di munizioni, rovinato Viale Venezia e quasi
demolita la vicina sede del manicomio, facendo numerose vittime.
Siamo in settembre. Ci giunge l’ordine di trasferirci col reparto a Feltre per un trasporto truppe. E’
avvenuto che ufficiali austriaci di nazionalità romena e cecoslovacca, facenti parte di reparti
occupanti i trinceramenti nella zona di Carzano, a nord di Borgo, hanno creato la possibilità alle
nostre truppe di passare senza combattere le linee nemiche, attraverso un varco da essi predisposto
rendendo inoffensivi reparti dell’esercito austriaco. Necessitavano di massima segretezza, intelligenza,
astuzia e impegno di forze leggeri capaci di dilagare con la massima celerità verso Trento, alle spalle
dello schieramento austriaco degli altipiani.
Durante alcune notti trasportiamo reparti di bersaglieri da Feltre – Lamon alla zona di Strigno,
passando per il passo Brocon, superando il quale il sonno ci fa un brutto scherzo che per poco nonn
finisce in tragedia. Purtroppo per la crassa inettitudine del Comando l’azione approda nel nulla.
Peccato! Se ben condotta l’azione avrebbe potuto sortire effetti forse decisivi e forse non si sarebbe
verificato Caporetto. Il reparto torna deluso e scontento in Viale Venezia a Udine.
CAPORETTO. Verso la metà di ottobre si va sussurrando di un probabile attacco in forze del nemico.
Difatti si aumenta la dotazione di munizioni alle batterie piazzate nelle zone di probabile attacco e il
nostro autoreparto è sottoposto ad un lavoro intenso e stressante. Le batterie da noi rifornite sono
quelle della II Armata e particolarmente quelle del XXVII corpo comandato dal generale Badoglio e
coprente la zona ad ovest della testa di ponte nemica di Tolmino. Siamo fiduciosi della tenuta delle
nostre linee perché sappiamo quanto sia potente la nostra artiglieria e quale sostegno sia in grado di
dare alle nostre fanterie.
Senonchè nella notte del 24 ottobre un furioso bombardamento nemico, anche con gas asfissianti,
sconquassa le nostre difese di Tolmino a Plezzo. Le prime notizie sull’andamento della lotta sono assai
preoccupanti.
Una nostra colonna che era diretta a rifornire una batteria del XXVII Corpo, ritorna in sede col
carico, avvertendo che in prossimità della meta ha incontrato, spaventati e in fuga, alcuni artiglieri
della batteria che ci raccontano:
«Sotto il bombardamento avversario la nostra artiglieria tace e, con nostra tremenda sorpresa,
vediamo emergere dalla nebbia, e avventarsi sulla batteria, pattuglioni nemici. Non riusciamo a
metterci in stato di difesa e non ci resta che fuggire per sottrarci alla cattura, e non tutti ce la fanno».

Rimaniamo allibiti e ci sorprende il contegno della nostra artiglieria, ben sapendo che la fanteria non
può resistere senza il sostegno dell’artiglieria.
Il successivo giorno 25 veniamo comandati, con 3 macchine, a sgomberare una compagnia di
telegrafisti sita poco ad est di Cividale che è una bolgia. Vi affluiscono continuamente torme di
sbandati di tutti i Corpi, armati o disarmati.
Danno assalto all’Unione militare e se ne escono brandendo bottiglie di Strega, Campari ecc. Molti gli
ubriachi, nessuno che comanda, nessuno che obbedisce. Un energumeno lancia una bomba a mano
contro un gruppetto del genio telegrafisti. Fortunatamente viene colpito un solo militare che riporta
una leggera scalfittura alla fronte.
In tanto caos un frate non perde la testa e, sostenuto da alcuni ufficiali, si mette ad arringare quella
folla impazzita, richiamandola al sacro dovere della difesa della Patria e dell’Onore d’Italia.
Si formano così vari gruppi di armati che si avviano, al comando di vari ufficiali, a fronteggiare il
nemico per tentare di fermarne l’avanzata. Passa qualche ora. Si nutre un filo di speranza; ma il
crepitare di una mitragliatrice poco lontana ci richiama alla dura realtà: fuggire o farsi catturare.
Rientriamo con le macchine al reparto di Udine il 26 ottobre e vi troviamo un’atmosfera di sgombero.
L’ordine di partenza verso il Tagliamento arriva la notte fra il 26 e il 27. Carichiamo i camion di
famiglie che vogliono fuggire e infiliamo la strada Udine – Codroipo – Tagliamento. La strada è una
fiumana di gente scappa. Artiglieri che cercano di salvare le loro batterie, camion carichi di borghesi,
carriaggi. Si tratta di militari a piedi, armati o disarmati che corrono per non farsi catturare., nessun
segno di disciplina. Codroipo, dove affluiscono altre strade, è un mare in tempesta e ci si muove
lentamente fra inenarrabili difficoltà. Sale sulla mia macchina un colonnello cui si è sfasciato il
reggimento, testa bassa, silenzio e qualche lacrima.
Scende poco dopo il colonnello e sale un maggiore che vomita una marea di insulti verso Cadorna e
Cappello. Li odierà finchè vivrà. Ad un tratto si sparge la voce che sta avanzando la cavalleria
tedesca. Il panico è all’estremo: grida, urli, imprecazioni, preghiere. Ma è un falso allarme
inquantoché si tratta di artiglieri francesi che, abbandonate le loro batterie piazzate sul Globochac,
fuggono a cavallo. Aerei nemici, di tanto in tanto, lanciano qualche bomba provocando paurose fughe
per i prati.
Chi non ha visto spettacoli del genere non può sapere cosa siano panico, spavento, terrore,
smarrimento.
Così passo passo si arriva a un paio di chilometri dal ponte, cosiddetto della “Delizia”, e non si
avanza più. Tutto è bloccato da cannoni e altri veicoli e il ponte sta per saltare.
Non voglio farmi catturare e prendo una delle decisioni più sofferte della mia vita. Abbandonare il
camion e tentare di passare il ponte a piedi. Così faccio, all’imbocco del ponte sta per trovare un
passaggio col suo camion un mio commilitone. Salto sul cofano della macchina e mi ritrovo sulla riva
destra.
Lì un gruppo di generali e alti ufficiali, illudendosi di poter formare una linea di difesa lungo la riva
destra del Tagliamento, consegna un fucile ciascuno ai militari disarmati man mano che passano, e
con quelli già in possesso di un’arma li avvia ad occupare l’antistante trincerone. Risultato: fuga in

massa dal trincerone attraverso la campagna e ripresa della fuga; quindi rotta completa e
impossibilità di imbastire qualsiasi difesa nella zona del ponte della Delizia, per cui la sua distruzione
si rende ormai necessaria e pressante. Prima cioè che se ne impadronisca il nemico sopraggiungente.
Seguendo la fiumana in fuga finalmente arriviamo a Conegliano, ma qui ci attende una brutta
sorpresa. Il comando riesce a riunire un gruppo di una decina di camion, a caricarli di pane e avviarli
verso la zona di Pinzano – Folgaria dove il corpo d’armata del generale Di Giorgio è senza viveri.
Si deve quindi rifare contro corrente e a qualunque costo la strada Conegliano – Pordenone – Casarsa
e da qui, usando di notte la strada di Destra Tagliamento arrivare a Pinzano – Folgaria.
Dopo immaginabili peripezie arriviamo a Casarsa a notte fonda e scura. Il ponte è saltato e vi regna
un silenzio assoluto, dato che tutta la popolazione è fuggita e vige una tregua obbligata dal fiume.
Fatichiamo nell’oscurità a infilare la strada giusta, ma ci riusciamo e arriviamo a Pinzano che
albeggia.
Il nemico a due passi
La popolazione è ancora al suo posto e stranamente ancora fiduciosa, mentre il nemico è a due passi.
Consegniamo il pane e ci prepariamo al ritorno. Carico sul mio camion in barella, 2 ufficiali feriti
mentre un soldato ferito alla testa si sistema al mio fianco… In quello, cominciano ad arrivare le
prime cannonate; la gente fugge come impazzita e prende posto fino ad esaurimento nei camion
rimasti vuoti.
Prendiamo la strada per Sequals e al passaggio di un torrente assistiamo ad una scena tremenda:
sulla strada si avanza fra intoppi e ingorghi e quindi fra liti per fatti di precedenza! Ad un tratto
arrivano quasi contemporaneamente alla testata del ponte di un torrente 2 batterie leggere. Le
comandano rispettivamente un capitano ed un tenente ed ognuno vuole passare per primo con la sua
batteria. Cominciano a litigare e improvvisamente estraggono entrambi le pistole e se la puntano
reciprocamente alla gola. Passa primo il capitano mentre il tenente entra in crisi d’isterismo e viene
calmato dai suo uomini.
Si avanza verso Maniago mentre a fianco della strada trotta lentamente, fronte al nemico, uno
squadrone di cavalleria. Il silenzio è assoluto. Pare quasi che cavallo e cavaliere siano entrambi
consci degli eventi tragici che per essi che per essi si stanno profilando. Nulla ho più saputo di quel
reparto.
Fermo il camion davanti all’ospedale di Maniago e i tre feriti vi vengono ricoverati. Così il camion
rimane vuoto e una famiglia fuggita a piedi dalla Carnia, con un figlio sedicenne che regge sulle spalle
una sorellina paralizzata, mi domanda di salire. Io consento, ma sopraggiungono in quel momento
alcuni sbandati villani e arroganti che intendono salire loro.
La famiglia piange e invoca, ma gli energumeni se ne fregano e insistono brandendo anche una
bomba a mano. Della scena si accorge un maggiore medico che, con un coraggio da leone si piazza
davanti a quei beceri insolenti e li apostrofa: «Vigliacchi, siete fuggiti dinanzi al nemico e ora fate i
prepotenti contro i vostri fratelli. Andate via vergognatevi!».
Affrontati così aspramente e decisamente hanno un momento d’incertezza e poi, mugugnando, se la
svignano, con immensa gioia della famiglia in fuga che trasporto fino a Conegliano, dove ricevo altri

ordini. Con la colonna superstite di macchine trasportiamo oltre il Piave reparti di truppa inquadrati e
disciplinati. Veniamo aggregati ad una colonna di un centinaio di macchine che il Comando è riuscito
a formare, col seguente compito: costituire un deposito di munizioni calibro 75 a Pagnano d’Asolo,
trasportandovi tutto il materiale esistente nel deposito di Tencarola di Padova.
Seguendo l’itinerario Padova, Cittadella, Bassano arriviamo a Pagnano e qui ci attendono gli uomini
per lo scarico, al comando di due Capitani dal più nero pessimismo. Prevedono l’occupazione della
zona entro poche ore da parte dei Tedeschi.
Comunque lo scarico avviene e 20 macchine rimangono sul posto per fare la spola tra il deposito e le
batterie già piazzate all’aperto in mezzo ai prati, magari vicino a mucchi di mele, della zona di
Possagno, Cavaso, Pederobba, con bersagli le vette del Tomba, dei Monfenera, l’imbocco della val
Feltrina. La quarta Armata ha pressoché ultimato il deflusso della val Feltrina che appaiono sulle
vette e in fondo valle i primi reparti nemici, ma sono accolti da un tale subisso di colpi che devono
retrocedere.
I colpi precisi dei calibro 75
La prima battaglia di arresto sul Tomba – Monfenera è vinta: merito del valore delle fanterie, ma
soprattutto di quel subisso di colpi precisi del calibro 75 prelevati dal deposito di Tencarola. Il nemico
ritenta successivamente, ma viene respinto dai francesi. Il reparto è poi impiegato per qualche
trasporto sul Grappa e per portare materiale edilizio alla sede di Abano del Comando Supremo.
Quindi viene inviato a svernare a Piazzola sul Brenta, dove si trasferiscono per alcuni giorni anche i
reparti inglesi. Intanto, passata la bufera l’esercito va ricostituendosi; la disciplina si ristabilisce. La
resistenza sul Piave e sui monti si fa accanita. Il nemico è costretto a segnare il passo e la fiducia
ritorna.
Le fabbriche lavorano a tutto spiano per sostituire il materiale bellico perduto; tanto che a primavera
l’esercito ha riacquistato un potenziale bellico che fa ben sperare.
Passato l’inverno in relativa quiete il reparto, completato delle perdite subite nella ritirata, si
trasferisce al completo a Bressanvido, a nord-est di Vicenza, e da qui cominciano a partire le
autocolonne che, dopo aver caricato nei depositi di Marsan, Bassano, Carmignano di Brenta e altrove,
vanno a rifornire le batterie piazzate su una linea di monti che vanno dal Grappa al sud Asiago
(Valbella, Kaberlaba, Mosca Magnaboschi e altri).
Ho un fratello Carlo della classe 1896 che fa parte del 46° autoreparto dell’11° autoparco. Su mia
richiesta il 21-5-1918 vengo trasferito al predetto 46° reparto che adempie alle stesse funzioni del mio
vecchio 44°.
Il 46° dispone di macchine migliori: camion 18 Bl con ruote posteriori a gomme piene – portata 45
quintali, ottima sterzata – e buona tenuta di strada.
«Monte Grappa Patria mia…»
Con mio fratello ho un rapporto più che affettuoso; anzi, quale fratello maggiore è felice quando può
sostituirmi in qualche servizio ingrato.

In maggio e giugno si lavora forte per rinforzare la dotazione delle batterie in previsione di un estremo
tentativo del nemico di travolgere una seconda volta le difese italiane; ma questa volta troverà pane
per i suoi denti. Il nostro esercito ha riacquistato una eccezionale efficienza materiale e morale. Nei
riposi dietro le linee il soldato accanto alla canzone solita “Quel mazzolin di fiori” canta “Monte
Grappa tu sei la mia patria”.

La strada più battuta per andare in linea è la: Marostica – Vallonara – Crosara – Conco – Campi di
Mezzavia e un giorno constatiamo che da Marostica a Conco, su ogni curva e su ogni tratto ripido di
strada sono stati collocati grandi e ben visibili cartelli con le seguenti scritte: «Attention virage – une
rampe doit être prise a la vitesse dont elle se monte».
E’ avvenuto che sul monte Mosca, alle Bocchette di Conco, sono state piazzate batterie francesi
rifornite con camion francesi ed anche nostri. Evidentemente la Francia ci tiene molto all’incolumità
dei suoi uomini.
Una notte io e altri compagni, dopo il rifornimento, siamo stati ospiti nella loro batteria: baracca
riscaldata – trattamento alimentare da buon ristorante – tanta cordialità. Se anche le nostre truppe
potessero disporre dello stesso trattamento! Il nostro Stato Maggiore sa che il nemico attaccherà la
notte del 15 giugno verso le 3, se non erro.
Sto scendendo dal Grappa, quando, poco prima delle 3, dal mare ai monti taglia all’improvviso
l’oscurità una tale linea continua di fuoco da richiamare visioni dantesche.
Sono le nostre batterie che tutte contemporaneamente riversano ondate di ferro e di fuoco sulle schiere
nemiche pronte all’attacco.
Il vittorioso evolversi della battaglia è quindi influenzato decisamente dall’intervento tempestivo e
preciso dell’artiglieria.
Fosse stato così a Caporetto con Badoglio e il suo XXVII Corpo d’armata! Durante la battaglia i punti
caldi: Grappa – Valbella – Kaberlaba – Cima Echar, vengono costantemente riforniti dal Reparto e
tutto funziona con la massima efficienza.
Il colpo inferto agli Imperi centrali con la battaglia del Piave è stato veramente decisivo, in quanto ha
fatto perdere loro qualsiasi speranza di riscossa.
Tuttavia, per affrettare la fine del conflitto, ormai vicina, gli Alleati chiedono all’Italia un ultimo
sforzo per dare al nemico l’ultima batosta. L’Italia accetta e si prepara per ottobre a vendicare
Caporetto.
Allo scopo il 46° autoreparto viene spostato nella zona calda del Montello; ma ci siamo appena
sistemati che vengo colpito da un febbrone: la cosiddetta febbre spagnola che sta mietendo vittime in
misura che spaventa, specialmente fra le truppe.
Mio fratello mi accompagna un mattino all’ospedaletto da campo di Trevignano dove lui pure sarà
ricoverato in serata. Anzi questo fatto ci divide perché io sono subito smistato verso l’ospedaletto di
Istrana, lui più tardi verso altra destinazione. Da Istrana mi avviano ad una villa ospedale di Tribano,
nel Padovano, dove vedo spegnersi tante giovani vite. La spagnola. Praticamente non vi sono cure;
solo medicina: una cucchiaiata di poligala. Non del tutto guarito vengo avviato in Piemonte e
ricoverato nello stabilimento balneare di Salice Terme.

Sarà stato il luogo, il trattamento ottimo, l’uva dorata ed il vino stupendo di quelle terre benedette, sta
di fatto che in pochi giorni mi rimetto perfettamente, e sono stati i miei giorni più splendidamente
vissuti, perché la notizia dell’armistizio ci ha fatto quasi impazzire dalla gioia.
Anche mio fratello se l’è cavata ed anche lui ha assaporato in un delirio di gioia la tanto attesa storica
notizia.
Il calendario segna: 4 novembre 1918.”

Abele Lago (1898-1996)