1980 Olimpiade di Mosca apertura

Mosca. Aperta l’Olimpiade
Il kolossal non maschera le ferite del boicottaggio
Sono sfilate le squadre di 81 dei 148 Paesi affiliati al Cio – La rappresentativa italiana, come quelle
di altri quindici Stati, preceduta soltanto dalla bandiera olimpica portata da un russo – L’unico
riferimento agli assenti è venuto da Lord Killanin – Breznev: «Cari invitati e compagni, la
ventunesima Olimpiade è aperta»

MOSCA – «Cari invitati e compagni, la ventunesima Olimpiade è aperta». Erano le 17.18 di Mosca
(un’ora in ritardo sull’Italia) quando Leonida Breznev, capo di tutte le Russie, ha dato il via alla più
ferita creatura dello sport moderno.

Su 148 Paesi affiliati al Comitato olimpico internazionale, soltanto 81 sono presenti a Mosca e,
tra questi, 16 ieri non hanno sfilato con la bandiera nazionale. Alcuni, come la Francia, l’Inghilterra
e l’Italia, erano del tutto irriconoscibili avendo affidato a un sovietico senza nome il compito di
reggere la bandiera del Cio, bianca, cinque cerchi, uguale per tutti.

L’unico accenno al boicottaggio degli assenti e all’astensione di una ventina di governi l’ha fatto
Killanin, lord irlandese prigioniero del sogno di un altro sangue blu, l’ottocentesco barone francese
De Coubertin: «ringrazio soprattutto i comitati olimpici – ha detto Killanin gonfiando mascelle e
bianchi basettoni – che hanno dimostrato indipendenza, resistendo a forti pressioni».

È la sola resistenza della quale era lecito parlare; quella afgana è tabù. Anzi, i 16 afgani
governativi che hanno sfilato sono stati i più applauditi assieme ai cubani. Abbronzato dal sole del
Mar Nero, lenti sottili sormontate da sopracciglia che hanno fatto la fortuna di tutti i caricaturisti del
mondo, Breznev ha dispensato all’inizio un largo gesto del braccio destro, degno di un patriarca
ortodosso. Poi, ha guardato come ad una cosa tutta sua, soddisfatto, il labbrone superiore ben chiuso
su un sorriso parco, di circostanza.

L’Olimpiade sta a dimostrare l’aspirazione degli uomini «a un mondo più tranquillo», ha detto
Novikov, presidente dell’organizzazione. Se la tranquillità doveva riguardare anche l’inaugurazione
dell’Olimpiade, proprio non poteva andar meglio. Non è successo nulla che non fosse previsto da
mesi: il trionfo del protocollo sull’imprevisto; una precisione quasi automatica non fosse per il
ritardo di un paio di minuti accumulato durante la sfilata.

Rispetto a Monaco nel ’72 e a Montreal nel ’76, i segni del boicottaggio, di un mondo di blocchi
anche nello sport, si sono visti tutti sul prato, dove la massa degli atleti era molto più rada che in
passato. Ma né Mosca né Breznev hanno battuto ciglio. L’Urss ha voluto la prima Olimpiade
comunista e ignora chi si affanna a dimostrarle che è un fallimento. A toglierle del tutto il giocattolo
dalle mani l’Occidente non è mai riuscito; al massimo l’Urss ha avvertito fastidiosi strappi alla
pelouche dell’orsetto Misha. Non abbastanza per mettere davvero in crisi gente che ha fermato
Napoleone e Von Paulus.

Cinquemila giovani, muniti di cartoni colorati, hanno fatto cose straordinarie animando un
quadro che nemmeno gli specialisti cinesi sarebbero riusciti a rendere più vivente. La televisione

sovietica ha dato alle riprese il massimo della suggestione coreografica, indugiando su bellissimi
primi piani. Mosca ha fatto l’impossibile per sembrare più vicina alle Alpi e agli Urali. Tutto il resto
per l’Urss non conta e, se anche contasse, l’uomo della strada non ne ha notizia. Mezza Olimpiade o
quasi Spartachiade che sia, l’apparato finge che sia quella di sempre, anzi la migliore. Non riuscisse
poi a sopravvivere oltre Mosca, fosse davvero l’ultima della storia, i sovietici hanno anche il
colpevole a disposizione: non l’Afganistan, ma Jimmy Carter, accusato di aver masticato la
nocciolina olimpica quale mero espediente elettorale.

C’era un boicottaggio visto da Ovest il cui vento recava folate libertarie. E c’è un boicottaggio
visto da qui o, meglio, non visto affatto, marginato, stritolato dalla stupenda scenografia di ieri, reso
persino patetico dal gioco delle bandiere nascoste, dall’arrangiamento dei Paesi senza nome
esplicito, dalla finzione degli atleti NN, figli di nessuno.
Nella musica di Shostakovich e nelle colombe in ascensione al cielo, chi crede nel boicottaggio ha
avvertito un senso di impotenza, la sensazione di quanto sia difficile salvare anche i simboli della
macina della realtà, che va avanti, ingoia tutto e si trova obbligata a digerire in fretta. Pochi giorni
dopo l’Afganistan, il Politburo non ebbe la minima esitazione nel confinare Sacharov e Gorki,
capitale ucraina dell’automobile, città chiusa: oggi «la grande festa dello sport» viene utilizzata
nella stessa logica, ignorando il dissenso. Così, a veder le cose dal palco di Breznev, ieri allo stadio
non c’erano assenti, ma soltanto fantasmi di provocatori.

Sulla Piazza Rossa, davanti al Cremlino, giovanissime reclute dell’armata danno ogni ora il
cambio della guardia al mausoleo di Lenin. Portano una divisa verde brillante, gambali di cuoio
nero da specchiarsi, il fucile appena uscito dal fruscio del panno lubrificato. Il loro è un passo
dell’oca ancora più possente, con la gamba che sale a 45 gradi da terra e il piede portato in avanti
con una modulazione che non so se figlia della caserma o del Bolscioi: questi soldati non muovono
pupilla; qualunque cosa accada a loro intorno, sembrano avere occhi sonnambuli, la retina opaca.

Ieri, tutto il colore di Mosca stava dentro lo Stadio Lenin, compresi gli incantevoli pastelli della
chiesa di San Basilio. Fuori era rimasto solo il grigio, il colore di Mosca e del suo cielo. L’area di
Mosca è più vasta di Londra, quattro volte New York, con 8 milioni di abitanti , ma ieri aveva l’aria
di unsìa città semivuota, dove ogni strada portava soltanto allo stadio. Una città fatta dagli ideologi
che dagli architetti, una città imperiale, da parata, senza bambini, intrusi, sbandati, ubriachi,
contrabbandieri e puttane, dissidenti del codice penale e dei diritti umani. Persino ieri, così
rastrellata in nome dello sport, Mosca era bellissima e interessante: non di un bello estetico, come
Rio De Janeiro; San Francisco o Venezia. La bellezza di Mosca viene dalla coerenza. Non c’è città
che si identifichi meglio con il Potere che esprime. Si vede che «vuole» sempre far intendere
qualcosa all’ospite, con un’ambizione di esempio se non di propaganda. Sta nel suo fiume, nei suoi
viale infiniti, nelle sue colline, come nella stella rossa perennemente illuminata sulla torre del
Cremlino.

Hanno boicottato con l’Olimpiade in sé, ma questa sede, questa città, questo potere: e questa
città ha reagito con la sua grigia potenza, mandando in mondovisione ginnasti, folclore, colombi,
ghirlande e il genio dei colori. Le vie della repressione e della distensione s’incrociano ancora.