2003 gennaio 26 Donne. Joni Mitchell

2003 gennaio 26

LUNEDI’ 20

Donne

Joni Mitchell, 59 anni, cantautrice folk canadese:” Stiamo annegando in un mare di immagini, dove
diventa difficile distinguere tra realtà e fantasia, soprattutto per i giovani. L’innocenza è
rinnovabile, attraverso la gioia e lo stupore. Guai ad aver paura della vita. E poi che ne sappiamo
noi, io, della vita?” (da “D” di Repubblica)
Christine Gran, scrittrice austriaca:” Anche il linguaggio è una puttana, ognuno lo utilizza come
vuole.” (da “Bastarda”, Neri Pozza editore)
Karen Blixen, 1885-1962, scrittrice danese:”Le dame che passeggiavano lungo i viali dei tigli, o li
percorrevano su grandi carrozze tirate da due pariglie di cavalli, portavano nel grembo il futuro
degli aristocratici. I loro signori potevano governare il paese e concedersi molti privilegi, ma
quando si arrivava alla suprema questione della legittima discendenza, che era il principio vitale del
loro mondo, su di loro, le dame, poggiava il centro di gravità.” (da “Il campo del dolore”, Adelphi
editore).

MARTEDI’ 21

Papi in tv

Il successo di Padre Pio fa palinsesto popolare. Arriva in tv un’altra fiction, un po’ biografica un po’
inventata, sul “Papa buono” Giovanni XXIII. Non tarderanno molto le due fiction di Rai e Mediaset
già in lavorazione su papa Wojtyla. Le nuove “vite dei santi” si fanno guardare volentieri.
Deve aver ragione il cardinale Camillo Ruini, che il vaticanista di “Repubblica” Sandro Magister
definisce “premier di quel governo ombra specialissimo che in Italia è la Chiesa.”
Verissimo, gli dichiara Ruini in un’intervista, che la scristianizzazione avanza in Italia, ma vero
anche che l’83 per cento degli italiani dà l’8 per mille dell’imposta alla Chiesa cattolica mentre il 90
per cento degli studenti delle scuole superiori ha scelto l’ora di religione.
S-cristiani di fatto e tuttavia ancora cattolici nel sottosuolo.

MERCOLEDI’ 22

Nordest

Vicenza è sempre in testa all’export di oggetti preziosi, prima di Arezzo e di Milano. L’oro del
Nordest.

GIOVEDI’ 23

Quattro cose

Il Papa ha invitato ogni giornalista italiano a garantire all’informazione di massa quattro valori:
verità, giustizia, libertà e amore. Ci provo, ma non ce la farò mai.

VENERDI’ 24

Agnelli/1

E’ la morte più paradossale del secolo, questo sì, come dimostra la rappresentazione della sua
scomparsa. Mezz’ora dopo la notizia, i telegiornali in edizione straordinaria raccontano dalla A alla
Z la “vita di successo” di Gianni Agnelli e, in parallelo, la “grande crisi della Fiat”, il raro carisma
personale e il suo precipitoso crepuscolo industriale, il prestigio dell’Avvocato nel mondo e la
decadenza internazionale del suo marchio di fabbrica. Il massimo e il minimo, la luna che splende e
il suo lato oscuro.
Ma i due momenti, del leader indiscusso e della sua azienda discussa, diventano di colpo due entità
del tutto a sé, praticamente separate l’una dall’altra nell’immaginario collettivo. Attraverso i mezzi
di informazione, il “personaggio” Agnelli finisce così per spiegare gli storici successi della Fiat
mentre si manifesta quasi marginale se non estraneo rispetto al declino dell’impresa negli ultimi
anni.
Una rimozione emotiva pressoché generale, che rivela la difficoltà di raccontare un uomo vincente
accanto alla parabola perdente della sua ragione sociale. Nelle interviste agli stessi operai della Fiat,
domina non a caso la percezione netta che l’Avvocato sia “insostituibile” e che il settore auto della
Fiat perda con lui il suo unico santo protettore.
Sia ai cancelli della fabbrica che nei telegiornali, il “re” di Mirafiori risulta non soltanto scorporato
dalla crisi della Fiat ma viene vissuto post mortem come perdita della speranza di uscirne.
L’Avvocato non avrebbe potuto ricevere un elogio funebre migliore di quello dei suoi dipendenti,
agli occhi dei quali resta semmai il re che ha regnato sulla lunga espansione della Fiat ma non che
ha governato la sua ritrutturazione finale.
L’epilogo mediatico è poi una specie di Viva Agnelli e di Abbasso la Fiat che, se attesta la
personalità dell’Avvocato, aiuta meno a capire come abbia funzionato il potere alla Fiat nella sua
ultima drammatica congiuntura. Forse sarebbe più utile immaginare piuttosto che il vertice del
nostro capitalismo (“Una specie di Fujiyama del capitalismo italiano”, lo aveva definito l’ex
ministro socialista De Michelis), sia stato fino in fondo ben dentro tutta la storia di Mirafiori.
La storia tutta, nel bene e nel male come si dice in questi casi. Con garbo, lo avrebbe preteso anche
Gianni Agnelli se avesse potuto dettare i suoi infiniti necrologi.

SABATO 25

Agnelli/2

Lui è stato il monumento al play boy ma anche l’uomo al quale nel 1993 un pio politico come
Scalfaro chiese inutilmente di fare il presidente del Consiglio. E’ l’uomo che faceva tendenza per
l’orologio sopra il polsino, ma che rappresentava all’estero la voce più autorevole d’Italia.
Amava le folle degli stadi e dei circuiti, eppure portava addosso una invisibile aristocrazia della
distanza. Conciliava l’arte di Platini con quella di Picasso, l’ideologia dell’Italia su gomma con la
mobilità tutta culturale di Palazzo Grassi sul Canal Grande.
Era il solo ultra capitalista che piacesse alla Cigl. Ha scritto sabato Luigi Pintor, storica firma del
quotidiano comunista il Manifesto:” E’ stato il simbolo di una storia, un simbolo ‘signorile’ che i
successori faranno magari rimpiangere.”
Alla guida di una famiglia di 150 membri, ha reso multinazionale il business familiare. Trovasse
capitali a New York o cedesse quote a Gheddafi, cercasse la salvezza nella General Motors o nei
fondi illimitati dello Stato, la Fiat sembra tuttora quotata in famiglia più che in Borsa!

Ma, per ulteriore paradosso, questa iperbole di capitalismo familiare piaceva poco o niente ai
milioni di capitalisti italiani allo stato nascente. Basti l’esempio della costellazione delle imprese
familiari del Nordest: rispettano Agnelli, non amano la Fiat nonostante l’indotto della ricerca.
La Fiat è stata troppo pubblica (nelle crisi) e, insieme, troppo privata (nei boom) per fare trend
diffuso. Con Benito Mussolini riuscì nel 1930 a cacciare la Ford dal mercato italiano; con Bettino
Craxi e con Romano Prodi impedì nel 1986 che la stessa Ford acquistasse l’Alfa Romeo.
Gianni Agnelli si ispirava ai liberal americani, eppure la Fiat è stata per decenni un tutt’uno con il
potere politico assistito. Se non uno stato nello Stato, il ministero occulto dell’economia.
Le biografie dell’Avvocato sono uno straordinario romanzo familiare. La biografia della Fiat è
anche la biografia di una certa Italia.

DOMENICA 26

Agnelli/3

Chissà se tanto potere rende felici. Non so rispondere. Il potere logora chi non ce l’ha, come
precisa il senatore Andreotti, ma non risparmia nulla nemmeno a chi ne gode. Non mi stupirei
affatto se , alla fine, perfino Gianni Agnelli avesse avvertito 81 anni di solitudine.
E poi la sua vita è stata il prototipo dell’esagerazione. La vita gaudente e portentosa attraversata da
buchi neri.
Invidiato per definizione, l’Avvocato è stato a volte compianto come un uomo qualunque alle prese
con il dolore più intimo. Aveva in mente due eredi al trono della Fiat, e li perse entrambi, il figlio e
il nipote prediletto, il cui destino fu inversamente proporzionale alle aspettative.
Lui, uomo curioso a detta di tutti, ha lasciato la scena senza nemmeno intravedere il destino della
Fiat. E’ il suo ultimo paradosso.
Ha detto al “Sole 24 Ore” il famoso banchiere americano David Rockfeller:”Gianni Agnelli era il
modello di quello che dovrebbe essere un uomo di successo.” Il successo non gli ha garantito una
morte felice.

———(citazione a parte)

Beppe Donazzan da “Una vita a colori. Angelo Carlo Festa e la Belfe”, editore Marsilio.
“Nei primi trent’anni del Novecento Marostica aveva qualcosa come quattromila lavoranti. Bassano
gravitava su Marostica, allora. Tolte le famose Smalterie venete e più in piccolo la Stamperia
Remondini, Bassano non aveva altre aziende. Molti bassanesi quindi venivano a lavorare qui nelle
numerose fabbriche e laboratori che confezionavano cappelli di paglia. Marostica era la concorrente
di Firenze. C’era una grande rivalità commerciale tra le due realtà. Firenze era paragonata a una
nobile donna per la sua finissima produzione, Marostica a una bella, prosperosa campagnola.Come
dire la paglia fiorentina dava confezioni di lusso, quella di Marostica serviva tutti.”