2003 gennaio 20 Business e calcio
2003 gennaio 20 – Business e calcio
Magari si fermasse il calcio e chiudessero gli stadi a tempo indeterminato. Magari questa grande
azienda popolare, con almeno 20 milioni di piccoli azionisti, si prendesse una pausa per pensare.
Magari saltasse per aria tutto, cariche e campionati. Magari tenessero duro i duri del momento:
importa poco o nulla se stiano proprio loro dalla parte della ragione. Importerebbe soltanto che in
questi giorni riuscissero per la prima volta a funzionare da detonatore.
Bum! E si ricomincia tutto da capo dopo aver raso al suolo un’organizzazione decrepita, che da anni
e anni piazza toppe qua e là spacciandole per riforme. Oggi, per rimettere le cose un po’ in sesto nel
calcio italiano, serve il bisturi non l’aspirina.
Il calcio é sempre stato in crisi e ne ha sempre passate di ogni colore. Ha fatto il riccone con le
cambiali e i debiti. Ha vissuto a lungo di rendita sulla romantica schedina degli italiani. E’ stato
frequentato da ceffi d’ogni risma. Ha conosciuto retate di arresti fin dentro gli stadi per corruzione,
gioco nero, vendita di partite. Ciclicamente, ha subito tutti i generi di perquisizione. Si é segnalato
per violenza di gruppo, ha allontanato le famiglie dalle gradinate.
Il calcio ha sempre salvato la pelle perché é un magnifico sport. Lo guardi e dimentichi il suo resto;
vedi Totti e scompare dalla scena Sensi; sibila un gol e addio fideiussioni. Non bastano 10.000
Carraro a oscurare il triangolo che ha battuto la Germania.
Nemmeno il conflitto con la giustizia dei tribunali rappresenta una novità. Già trent’anni fa alla
Fondazione Cini di Venezia, il professor Alfonso Vigorita e il giovane magistrato Ennio Fortuna
furono i più lucidi nel rivendicare l’autonomia dello sport partendo dalla distinzione tra ”illecito
sportivo e illecito penale” e nel profetizzare tutti i guai che sarebbero derivati dalla confusione fra le
due sfere di giudizio.
Della politica che s’infogna nello sport non ne parliamo nemmeno. E’ prassi vecchia come il cucco.
Fu Giulio Andreotti a bloccare d’imperio l’importazione di calciatori stranieri dopo lo sfascio della
Nazionale. E il calcio ha spesso risolto le sue grane con un intervento del governo o con un decreto
legge; fu il Parlamento, tanto per dirne una, a stabilire una ventina di anni fa che il calciatore
doveva essere considerato un lavoratore subordinato, non più un bene vincolato al suo club come
una bicicletta o un soprammobile.
Non sono queste le novità dell’attuale crisi, né i Tar impiccioni né i politici invadenti né il tifo
sfaccendato né gli sbrindellati dirigenti. Questa crisi é inedita solo per cedimento strutturale.
Il calcio ha sfondato il muro del suono del Business, ritrovandosi in una terra di nessuno dove
convivono la Borsa e il Cosenza, la Juventus e Borgo Chievo, Murdoch e i peones, insomma una
frittura mista che non rappresenta né il passato né il futuro ma soltanto l’oggi che abbiamo sotto gli
occhi. Un professionismo diseguale, che ha trasferito in serie B tutti gli spropositi della serie A, a
cominciare dagli stipendi ultramiliardari a giocatori di medio valore.
Sergio Campana, fondatore e leader dell’associazione calciatori, era ai suoi tempi uno dei primi
dieci attaccanti d’Italia. Centravanti del Bologna, guadagnò al massimo 8 milioni all’anno tra
ingaggio e premi-partita, cioé tra i 500 e i 600 milioni di oggi. Ma oggi possono guadagnare tre
volte tanto, magari in squadre di serie B del Nordest, attaccanti catalogabili al massimo tra i primi
40 d’Italia. Non tra i primi dieci!
Il Business é una cosa seria. Necessita di preparazione, anche di tradizione, come accade con il
basket, il baseball e il football americano negli Usa.
Il calcio italiano é invece piombato nel Business senza preparazione e tradizione. Soltanto la Juve e
il Milan di Paperòn Berlusconi ci sanno fare. L’Inter dimostra al contrario che non bastano i schèi a
fare il vero Business maiuscolo.
Il Business ha rivoluzionato un calcio gestito dai soliti noti, superati e indecisi a tutto. Ancora non
ci credo, ma sarebbe miracoloso che la ribellione di queste ore provocasse la reazione a catena,
dunque strutture e formule nuove di zecca.
Perderemmo un po’ di partite, ma non il calcio. Qui bisogna fischiare un bel calcio di rigore.