2002 febbraio 10 Cultura

RUBRICA 3-2-2002, alla Cultura da giorgio lago.

DOMENICA 3

I grandi

Jean Favier, storico francese del Medio Evo:”Carlomagno regnò sull’Europa per quasi mezzo
secolo ed ha avuto il tempo di ricorrere a tre generazioni di consiglieri. Un grande uomo non è mai
isolato, né dal suo tempo né dal suo entourage, e i grandi governanti non sono circondati che da
grandi consiglieri anche se la storia è piena di grandi uomini consigliati da uomini di paglia o di
grandi consiglieri che circondano un fantoccio”. (da Le Figaro )

LUNEDI’ 4

1922-2002

Benito Mussolini si tiene per sé il ministero degli Esteri e lo trasferisce a Palazzo Chigi.

MARTEDI’ 5

W la regina

Tony Blair ha festeggiato la regina Elisabetta con un nuovo progetto per gli immigrati di sua
maestà,che porta il nome del ministro degli Interni, David Blunkett. In sintesi, si tratta di una svolta
culturale, per dire:noi abbiamo bisogno di te extracomunitario, e siamo felici che tu diventi presto
cittadino britannico, ma a patto che a quel punto tu ti riconosca al cento per cento in ciò che noi
siamo e che rappresentiamo.
Per diventare cittadino del Regno Unito, l’extracomunitario dovrà superare un esame di lingua
inglese e frequentare un corso di formazione su valori, leggi e istituzioni inglesi. Dovrà giurare
fedeltà alla regina, dichiarando di rispettare i diritti democratici e le libertà di un Paese che,da parte
sua, si offre allo straniero come “rifugio sicuro”. Alla fine, con tanto di banda musicale, bandiera
dell’Union Jack al vento e inno nazionale,una cerimonia ufficiale proclamerà la nuova nazionalità
dell’immigrato.
Trovo straordinario questo patto di fedeltà nella libertà, che sta alla base del Paese per definizione
multietnico, cioè gli Stati Uniti. Scommetto che il progetto americano di Blair piacerebbe per
l’Italia anche al patriottico Ciampi , ma in questo caso il capo dello Stato rischierebbe forse di
passare per razzista o quasi.
A proposito, dimenticavo, Tony Blair è laburista.

MERCOLEDI’ 6

Turoldo 1992-2002

Da “Incontri con Turoldo”, di Dino Scantamburlo, ex sindaco di Camposampiero , Tipografia
Bertato.
“Già dopo aver subito all’ospedale di Padova il primo intervento chirurgico, padre David aveva
detto: E’ tempo di raccogliere le cose e di dare il giusto valore a ciò che conta davvero; e le cose
che contano sono così poche !”

Da “La mia vita per gli amici”, di David Turoldo, pubblicato postumo in questi giorni dalla
Mondadori, a cura di Maria Nicolai Pytner e Marco Garzonio.
“Ma vengo alle battaglie ancor più famose. Pure per queste non sento rimorso alcuno. Si tratta del
divorzio e dell’aborto: due battaglie da non mettere sullo stesso piano, e per le quali tuttavia mi
trovai schierato in senso favorevole.
Per la prima volta, avanti ancora che si aprisse la campagna referendaria, andai dal mio vescovo a
manifestargli quanto pensavo : che sarebbe stata una battaglia sbagliata e perduta in partenza. Gli
dissi che l’impostazione del problema, da parte cattolica, era sbagliata; che questa poteva essere una
grande occasione per una vera catechesi sulla famiglia; che non si poteva pensare di vincere, che era
inutile fare leggi cristiane senza soggetti cristiani, eccetera. Gli dissi:”Io non posso andare contro
coscienza”. E il vescovo:”Neppure io posso andare contro la mia”. E soggiunse:”Lei segua la sua, io
seguo la mia”…
A Roma parlai a lungo con monsignor Bartoletti che mi accolse come sempre, da grande amico. Gli
dicevo che più di una sessantina di sacerdoti erano disposti a fare un manifesto in favore del
referendum sul divorzio (1974 ). Allora mi supplicò che mi prestassi affinché questo non avvenisse.
Cosa che promisi e mantenni. Come mantenni di seguire la mia coscienza. Convinto che il divorzio
è certamente un male, come del resto ho detto e ripetuto in tutti i toni e in tutte le circostanze. Ma il
problema non era per me il divorzio, era la libertà di coscienza, e il rispetto che si deve a chiunque
non abbia la mia fede: un rispetto civile che sta alla base di ogni convivenza”.
Padre Turoldo è morto dieci anni fa, il 6 febbraio 1992. Ha lasciato un vuoto enorme, ma le sue
cose continuano a circolare e a interrogare più vive di ieri, come salmi senza data che non si
consumano.

GIOVEDI’ 7

Per l’art.18

Il più liberal tra gli economisti americani, John K. Galbraith, confessava una ventina di anni fa di
essere molto depresso perché , alla sua età, non si sarebbe potuto occupare attivamente degli epocali
cambiamenti già allora all’orizzonte. E su una sola cosa non aveva dubbi:in futuro, il mercato
avrebbe dovuto trovare ad ogni costo il sistema per “tenere conto di tutti gli aventi diritto al
reddito”.
Amo molto questa espressione, ”tutti gli aventi diritto al reddito”, che collego per istinto liberale a
un’altra del sociologo francese Dominique Schnapper:”Il cittadino moderno acquista la sua dignità
lavorando”. Stringi stringi, l’uomo occidentale si fonda essenzialmente sulla cittadinanza e sul
lavoro produttivo, che dà senso alla vita, alla famiglia, in parole povere a ciò che sei. L’identità
sociale attraverso l’io.
Il nostro articolo 18 si è caricato di quest’aura e di questi significati, non ci sono santi. Sta poi a
vedere se è una manipolazione o no, ma così è: non si tratta più di modificare un paragrafo dello
statuto dei lavoratori, ma ormai di discutere un’idea di equità sociale. Di senso.
Gli esperti della materia sono bravi: loro non dicono mai “licenziamenti”;preferiscono parlare di
“flessibilità esterna in uscita”, che a me ricorda più che altro un passo di danza classica. In realtà, la
gran parte di chi ha a che fare con l’art.18 sospetta almeno un by pass per licenziare senza giusta

causa ; oggi un “esperimento limitato”, d’accordo, ma domani stai a vedere dove arriva la non-
giustizia via via deregolata .
Resta lo strano fatto che, se politicamente sembra la linea del Piave, a volte l’art.18 mantiene in
parallelo un profilo basso basso, quasi si trattasse di un dettaglio sindacale. A parte lo sterminato
mondo delle imprese con meno di 15 dipendenti, che ne è come noto escluso, la Fiat invita ad
esempio a non fare di esso una Bastiglia confindustriale mentre il Nordest , saturo di lavoro fino al
collo, lo considera da tempo un “falso problema”. Mettetevi almeno d’accordo, santo Dio, perché
non può essere allo stesso tempo una guerra santa e/o una parata di muscoli.
Dico solo una cosa. Magari il Confgoverno ha ogni ragione nel sostenere che, disarmando un po’ il
18, si fa più occupazione, meno nero e meno precarietà, non dico di no, ma non si può barattare tot
posti di lavoro con tot diritti di lavoro, riducendo la garanzie dei nuovi occupati rispetto a quelle dei
vecchi. Che ci sta a fare la Costituzione paritaria ?
In un altro Paese probabilmente andrebbe bene; non in Italia, qui da noi no.In Italia, non da oggi, la
burocrazia privilegia se stessa; la giustizia lenta aiuta i ricchi; la politica tutela i super tutelati; lo
Stato favorisce i potenti organizzati; le istituzioni sono burocentriche mentre il cittadino è più solo.
L’articolo 18 , a mio parere, diventa fatalmente il simbolo – magari economicamente obsoleto – di
chi resiste all’indebolimento della sola vera cittadinanza ancora non licenziabile su due piedi:
quella del lavoro.
Non essendo più uno strumento sindacale, ma in pratica un frammento di libertà, va difeso in sé.
Almeno fino a quando l’Italia non libererà altri diritti effettivi, e non a spese del lavoro.
Ci sono fior di premi Nobel dell’economia che fanno notare come le persone siano spinte dalle
“passioni” oltre che dagli “interessi”. E’ equo tentare sempre tutto il possibile per conciliare questi
con quelle.

VENERDI’8

Samuele

Samuele aveva 3 anni. Sono 8 i minuti che contano. 250 i metri che separavano dalla casa l’infelice
mamma, quando se ne allontanò per 8 minuti.
Attorno al fattaccio di cronaca nera, tutto è miniatura, i tempi e gli spazi, il paese di Cogne, la
riservatezza degli abitanti, la compostezza del nonno, il sindaco alla buona, la villetta , il mondo
misurato dei genitori e degli amici, il piccolo sul letto grande come un cucciolo nel parco del Gran
Paradiso. Tutto in miniatura, tranne i 17 colpi,e lo strappo dei pensieri.
La verità investigativa è un ricamo, punto su punto, filo su filo.La verità della colpa,in un delitto
come questo, sarà sempre parziale: il colpevole potrà dire perché lo ha fatto, ma non potrà
spiegarlo. Non ce la farà mai a farsi capire.
Rarissimamente, un mistero è sembrato così orientato come questo. In un piccolo punto concentrico
di mondo, ogni gesto riconduce al suo centro: la casa. Più che un giallo, un esercizio freudiano
attorno a una volto che manca.
La gente segue tantissimo questa storia, che non è affatto morbosa.Qui niente risulta davvero
morboso: piuttosto, l’interesse nasce dall’incoerenza totale tra l’habitat e la ferocia.E’ l’assenza di
indizi ambientali, familiari e umani che moltiplica la curiosità.Chi e dove ha trovato, in silenzio, la
forza dei 17 colpi?
Il magistrato fa per bene il suo dovere:”Non confermo e non smentisco”. Ribatte un
giornalista:”Allora non smentisce”. Il magistrato:”Non confermo e non smentisco”.
Se questo è giornalismo. E vorrei sapere che cosa ne guadagna l’”informazione”facendo l’autopsia
di Samuele nei telegiornali, perché di questo in realtà si tratta quando elenchi colpo su colpo,
precisando la zona delle fronte, il dettaglio delle ferite, la mappa del sangue in prima serata, con la
bistecca sul piatto.

I sociologi si preoccupano giustamente dei bambini che guardano la Tv. Dovremmo occuparci
della soglia di umanità e di gusto degli adulti, anche di questo .
Ma ho visto e letto anche tante buone cronache,capaci di attesa. Che hanno saputo tenere ipotesi e
sospetti anche forti almeno sotto una spanna di neve fresca, per pietas presunta come presunta ogni
verità.
Alle 5 e 49 di quella mattina, dalla villetta di Cogne il papà chiamò il 118 per la mamma , che non
stava bene e che, alle 8 e 28, avrebbe richiamato il 118 per il piccolo Samuele : come una
premonizione di dolore. E di ineluttabilità differita.
Scoprire che cosa o chi è penetrato di colpo in quel minuscolo circuito chiuso di vita, sarà come
illuminare la normalità. Spesso, non c’è mistero più fitto dei libri aperti.

SABATO 9

La citazione

Antonio Sema da “ Soldati e prostitute”, il caso della Terza Armata, Rossato editore.
“Nel 1916 la situazione del Basso Friuli, area di competenza della Terza Armata, era tutt’altro che
sotto controllo dal punto di vista del rapporto tra militari e donne. Il vescovo di Padova, Luigi
Pelizzo, segnalava al Papa benedetto XV ( in data 9 ottobre 1916 ) come la situazione morale delle
zone fosse “una delle più desolanti”. Il vescovo, di famiglia slovena, parlava per conoscenza diretta
della situazione, avendo ottenuto molte informazioni dai parroci e dai fedeli della zona.
Peraltro,date le sue origini e i suoi orientamenti, poteva essere considerato una fonte tutt’altro che
imparziale tanto che perfino il Papa aveva giudicato “eccessivo”il suo inguaribile pessimismo nei
confronti dell’Esercito italiano. Il vescovo era più fortemente impegnato anche nella lotta contro “la
rilassatezza dei costumi indotta soprattutto dalle case di tolleranza”.
Il vescovo distingueva però tra le amministrazioni locali (sindaci, commissari eccetera) formate a
sue dire da individui della “peggiore razza” , e che nessuno poteva richiamare, e il Comando
Supremo “animato dalle migliori disposizioni”, ma che con simili aiuti nulla poteva fare.Una
testimonianza parlava addirittura di un caso di prostituzione esercitato da due donne in una
canonica.
Le autorità religiose avevano protestato, ma avevano ottenuto solamente che le due donne andassero
a dormire da un’altra poarte, salvo ritornare di giorno, ossia quando i militari erano liberi di uscire
dagli accampamenti, ad esercitare la loro professione. ”E questo – aggiungeva Pelizzo – non è un
caso isolato”.