2002 aprile 7 Nordest laboratorio a vita

2002 aprile 7 – Nordest laboratorio a vita
L’attore Marco Paolini, moderno trovadòre veneto, narra da tempo la paura del lavoro. È una sua
costante, un po’ poetica un po’ politica: a Nordest si lavorerebbe troppo, e questa overdose di lavoro
finirebbe – qui lo dico con parole mie – per inquinare i cittadini prima che il territorio, la qualità del
vivere più che i ritmi della produzione. Non è soltanto lui a pensarla così, ma lui lo dice meglio di
chiunque, con la libertà dell’artista, tra rima e dialetto, tra sarcasmi e fescennini, riuscendo sempre a
inquietare anche chi non è d’accordo. Come, ad esempio, il sottoscritto: secondo me, il lavoro incarna
al contrario il solo punto di vera coesione di quest’area; e rappresenta non solo la “forza lavoro” che sta
alla base della economia dei schèi mai così diffusi, ma soprattutto l’identità tuttora forte di una società
indebolita nei riferimenti. Posso sbagliare beninteso, eppure ho la netta impressione che il super lavoro
nasconda più che altro voglia di benessere (familiare) e di senso (personale). Sotto la scorza
dell’apparenza, dunque un bisogno quasi disperato di essere qualcuno nonostante la generalizzata
tentazione di avere qualcosa e basta. Dico questo, senza approfondire ulteriormente, perché mi serve a
segnalare il momento molto strano del Nordest, e però sempre eruttivo, mai riposante e tantomeno
latitante. Se c’è da misurare il Prodotto interno lordo, gli ultimissimi dati rivelano che ormai un quarto
delle imprese venete esporta. Se, allo stesso tempo, c’è da ragionare laicamente sull’articolo 18 e sulla
conseguente pace sociale, il Nordest si mostra in prima linea: e qui non si tratta di Pil, ma di
pragmatismo imprenditoriale che probabilmente viene da lontano. A guardar bene, ancora decenni
prima che si cominciasse a discutere ufficialmente di flessibilità, il modello nordestino nasceva
flessibile perché flessibile era in fondo la ricetta dorotea, allora dominante a Nordest: quella Dc non
pianificò un modello; anzi, gli fu gregaria guardandosi bene dal programmarlo a tavolino. Lo avesse
fatto, è altamente probabile che avrebbe finito per frustrare gli spiriti animali del fai da te di massa, e
metà dei schèi sarebbe andata a ramengo. In tal caso, non sarebbe stato troppo il lavoro ma un lavoro
sprecato in partenza. E il Nordest ex-povero ha invece imparato a non buttare via una sola occasione
che sia una di rivincita sociale. Oggi circolano parole d’ordine a raffica. Resistere, resistere, resistere
(Borrelli); riformare, riformare, riformare (Bossi); rifondare, rifondare, rifondare (Bertinotti). Il
Nordest non si sposta di un millimetro dal suo vecchio sogno: fare, fare, fare. Questo il punto, che forse
spiega anche la inalterata filosofia del lavoro. Provo a spiegarmi. Il Nordest continua a consegnarsi
mani e piedi, oggi come ieri, al lavoro perché da troppi anni verifica che il “sistema” fa ancora poco,
troppo poco, a volte nulla. Nel dire sistema, intendo ovviamente la rete dei poteri sul campo, il ceto
dirigente, le istituzioni, il mondo dei saperi: esistono, ci sono, sono ben visibili, si ristrutturano senza
tregua dalle banche ai partiti, ma continuano a faticare come e più di ieri nel lavorare insieme. Detto in
maniera il più possibile rozza, è il Nordest del Pil privato, non ancora del Pil pubblico. Ha detto il
presidente del Veneto, Galan, a Vicenza: ”Per l’autostrada Valdastico Nord noi veneti stiamo
letteralmente torturando i trentini; anzi, li stiamo per così dire ricattando, nel senso di farli riflettere
anche sulla montagna di soldi che loro ricevono dallo Stato e che noi nemmeno ci sognamo”. Cito
questo come esempio di cronica precarietà del “sistema Nordest”, nei collegamenti più nevralgici. Ma
anche il laboriosissimo tentativo di collaborazione tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto su un sintetico
pacchetto di problemi in comune sta a dimostrare proprio in questi giorni che la strada resta lunga e
accidentata. A volte si viene colti da un sospetto paradossale. E cioè che il Nordest si sia specializzato
in anarchia! Formidabile per individualismo, inabile alla struttura. Ancora: sembra quasi che il Nordest
si sia inconsapevolmente scelto un destino di laboratorio a vita. Come dire, un luogo del capitalismo
dove si passa rapidamente dal capannone (di paese) alla delocalizzazione (globale) senza l’aiuto dei
tanti “passanti” incompiuti sul territorio e a corto dei poteri a plotoni affiancati come si usa in Baviera,

tra Land, Impresa, Sindacato e Banca. Ogni fenomeno spontaneo sente alla lunga fame di geometria. È
questo il solo tasso di crescita che ancora manca al Nordest nelle statistiche delle ultime settimane: non
si parte da zero, ma il traguardo resta una lontana infrastruttura. O sbaglio?
7 aprile 2002