2002 aprile 29 Udinese

2002 aprile 29 – Chievo udinese

“Si planti une vit”, piantate una vite diceva Isi Benini, indimenticabile duca dei vini friulani. Si
pianti subito un devoto gol allo stadio, aggiungo nel nome dell’Udinese 2002 che resta
avventurosamente in serie A, e con tutta franchezza non so dire se ci sia meno poesia in un’area di
rigore che in un podere del Collio. Messa giù così, la mia sembrerebbe la solita menata a metà
strada tra la retorica strapaesana, il rito pseudo etnico e il minestrone di cose troppo diverse tra loro.
Però…
Però, è verissimo che l’Udinese promuove qualcosa di speciale, di tutto suo e di molto doc. E’ una
questione di polveri fini, che si respirano nell’aria da sempre, fin dalla protostoria delle “zebrette”, e
che entrano impalpabilmente nel football come nella cultura. Giorgio Celiberti ha studiato in giro
per il mondo, da Londra agli Usa, da Bruxelles a Cuba, dal Venezuela a Parigi, ma poi ha dipinto il
meglio dell’anima tornando a Udine.
Udine è una media città di un Nordest senza centro burocratico ma con tanti centri vitali; la serie A
di oggi è invece una multinazionale d’affari, non più un assieme di società per tradizione sportive.
In questa strana convivenza, può accadere di tutto, senza una regola fissa; basti pensare all’exploit
di un borgo urbano come il Chievo.
Può capitare anche che i risultati di una squadra risultino incoerenti sia con la qualità del pubblico
sia con i bilanci della società. E’ un po’ il caso dell’ultimissima Udinese, che ha imbroccato un
campionato da pronto soccorso subito dopo essere stata paragonata al Manchester per salute
economica del club della dinastia Pozzo. Ma si può?
Comunque, non bisogna mai dimenticare che l’Udinese non è Udine; è il Friuli, questo il
punto.Come ampiamente noto, è una squadra-regione non una squadra-città, motivo per cui si carica
da sola di significati extra sportivi ed extra business.
Oramai, l’Udinese è un’infrastruttura del territorio. Molto particolare, però una roba così, sulla
quale il pubblico conta stabilmente come si dà per scontata una tangenziale o una rotatoria. Proprio
per questo noi vecchi viziosi del calcio possiamo anche sostenere, senza timore di passare per
dementi, che sono indispensabili al Friuli tanto il Corridoio 5 verso l’Est quanto i maledettissimi
corridoi laterali verso il cross!
Scherzi a parte, anche questa è “valorizzazione” ed “efficienza” come le chiamano Tondo e
Valduga pensando al sistema- Friuli. L’Udinese è privata, ma viene sentita come pubblica: tutto
qua, e dunque serie B o serie A non sono affatto la stessa cosa né , tanto meno, si tratta di una
differenza soltanto di rango federale.
No, no, l’Udinese è sempre stata anche “qualcos’altro”, come capivano benissimo già trent’anni fa
politici e sindaci come Comelli e Candolini: li trovavo in tribuna allo stadio, ma avevano l’aria di
partecipare a una seduta del Consiglio regionale e/o comunale.Anche per questa ragione ho sempre
pensato che, da Bruseschi a Brunello, da Sanson a Mazza fino a Pozzo, fare il presidente a Udine
sia sempre stato più complicato che altrove.
Più gratificante ma anche più complicato, come sempre accade quando un Club o una Spa di calcio
che sia coincidono nel bene e nel male con la bandiera di un intero habitat umano. La pressione di
un pubblico pagante è una cosa; quella unanime di un territorio è tutt’altra cosa: tra le due corre la
differenza che passa tra la passione e l’identità, tra l’incasso e l’orgoglio.
Per paradosso, l’Udinese 2001-2002 è invece la meno friulana della sua storia! Voglio dire che si è
fatta notare per una serie di caratteristiche agli antipodi rispetto al suo Dna ambientale.
Mentre a scuola si investe sull’insegnamento del friulano, è stata l’Udinese più cosmopolita, più
multi etnica, più legione straniera della storia. A volte, nel leggere sul Messaggero le formazioni
della squadra mi veniva in mente il Cosmos di New York.
Ha cambiato allenatore in corso d’opera, e questo rientra nell’assoluta normalità in Italia dove un
caso come quello di Ferguson, che allena il Manchester da quasi vent’anni e che poté lavorare i
primi cinque anni senza vincere niente, è addirittura inimmaginabile. Solo che l’Udinese non è

riuscita nell’occasione a spiegarsi bene, tanto che il tecnico Ventura ha praticamente convissuto in
panchina con Hodgson: è stato lui, giorno per giorno, il suo scomodo “secondo”.
Non è finita. Con strano accanimento, la squadra ha vanificato il fattore-campo, come se giocare
allo Stadio Friuli o in Florida fosse la stessa cosa, anzi. Il bello è che, nonostante la pista di atletica
fatta per tenerlo lontano, il pubblico friulano si distingue da sempre nel farsi sentire vicino come
pochi. E allora è difficile capire che sia successo per trasformare quelle in casa in partite in trasferta
o quasi.
Da questo punto di vista ho trovato molto bello che David Di Michele, romano di provincia, un
farfallino d’area veloce come Annibale Frossi, abbia raccontato domenica che il rigore-salvezza di
Lecce non c’era proprio. E’ impopolare dirlo da parte sua, ma la schiettezza che ne viene fuori mi
suona bene, mi suona all’antica, qui con un tocco di generoso Alé Udin.
Oh, a scanso di equivoci, qualunque provinciale riesca a rimanere tra le 18 squadre di questo tipo di
serie A ha sempre compiuto un’impresa. Si può arzigogolare sul come, ma non sulla cosa. Applausi.