1996 aprile 21 Solo il fischio d’inizio

1996 aprile 21 Solo il fischio d’inizio

Lasciamo perdere chi ha deciso di astenersi. L’80% di chi vuol scegliere e quindi votare sa da tempo
da che parte stare.
Per la stragrande maggioranza degli italiani la campagna elettorale ha significato poco, nel senso che
il voto di posizione resiste anche al diluvio di porta a porta e di testa a testa. Sinistra, Destra e Lega
rispondono a storie, culture, emozioni, pregiudizi e affinità che il comizio telematico non scalfisce.
Ciò vale ancora di più in una democrazia post-ideologica soltanto da pochissimi anni. Ne dobbiamo
essere consapevoli, per misurare correttamente il responso di oggi.
A decidere sarà un flottante di 5 milioni di voti, forse 4, forse 6. E’la partita degli incerti, dei confusi,
anche dei teledipendenti, in genere caratterizzati dal fatto che attribuiscono al “come” maggior peso
che al “cosa” della politica. Meccanismo questo più ampiamente metabolizzato negli Stati Uniti dove
un paio di faccia a faccia in Tv può decidere chi va alla Casa Bianca.
Con l’eccezione della Lega Nord nel 1992, in Italia le elezioni servono a contarci più che a cambiare.
E la legge elettorale che il francese “Le Monde” definiva proprio ieri “schizofrenica”, contribuisce a
impantanarci nella transizione piuttosto che a uscirne. Unici al mondo, adottiamo un sistema
maggioritario con centinaia di simboli e decine di partiti.
Tutto ciò crea fatica, ingorgo. Si va a votare né soddisfatti né disperati, con la certezza dell’incertezza.
La polvere cacciata sotto il tappeto dall’incapacità di riformare, ce la ritroveremo tutta, già domani
mattina, quando gli elettori torneranno cittadini.
Sicché viene chiesto agli elettori l’ennesimo miracolo di democrazia: emendare con un voto utile
elezioni inutili; partecipare oggi all’insegna beffarda del “governo per cinque anni” pur sapendo che
saranno molto più verosimilmente un’altra legislatura parziale, un altro voto anticipato, un altro
governo a sovranità limitata. Non so quanti politici si rendano conto che la parte migliore dell’Italia
degli anni ’90 è il “popolo”, soggetto costituzionale che pochi hanno il coraggio di evocare se non
per ridurlo a populismo, sua caricatura da balconata televisiva.
Nell’ultimo mese è accaduto qualcosa di grottesco. A un’opinione pubblica affamata di soluzioni
concrete, le forze in campo hanno praticamente negato i programmi!
Ma anche le apparenti follie sono spesso ragionevoli: nessuno è davvero in grado di fare da solo, di
cambiare lo Stato da solo, di vincere da solo la mafia, di suscitare il lavoro da solo, di fermare da solo
la Repubblica dei Bot senza che il prezzo precipiti liberisticamente sulle pensioni da fame, sui salari
bloccati, sulla piccola impresa massacrata dal fisco nonostante l’altissimo valore aggiunto in cifra
sociale.
I programmi e i governi sembrano e sembreranno tutti uguali senza le riforme, questo il punto. Lo
hanno capito i politici, che dei programmi si sono scordati; lo sanno gli elettori, che sognano ad occhi
aperti l’uscita dallo Stato del dissesto e delle mafie.
Nessun pezzo d’Italia è più riformista e federalista del Nordest, area di produzione e di solidarietà, di
pragmatismo contadino e di innovazione europea. Chi vince a Nordest, vince in Italia.
Ma questo voto decide soltanto il fischio d’inizio. Null’altro.