1995 dicembre 3 La grande ipocrisia del “non sapevamo” pesa sul ceto dirigente

1995 dicembre 3 La grande ipocrisia del “non sapevamo” pesa sul ceto dirigente

Con Tangentopoli continuiamo a fare gli struzzi. Anche se comodo, è un esercizio sempre destinato
a finir male.
Restiamo agli ultimissimi dati, Silvio Berlusconi si nega al magistrato: ha il diritto di farlo, ma non è
bello a vedersi per un ex presidente del Consiglio tuttora candidato alla stessa carica.
Quanto alla richiesta di rinvio a giudizio per Cesare Romiti, i suoi legali la definiscono “illegittima”.
E aggiungono che non esistono “prove storiche” che l’amministratore delegato della Fiat sia coinvolto
nella gestione estera di fondi neri, il tesoretto per finanziare partiti.
Anche Berlusconi, come Romiti, ritiene che i magistrati non riusciranno a produrre l’accusa. Ha
addirittura promesso di lasciare la politica se risulterà un qualsiasi finanziamento della Fininvest a
Craxi.
Mancano le “prove storiche”. Si potrebbe ipotizzare che a mancare siano le prove processuali.
La “storia” ha già detto tutto. Un anno e mezzo fa Carlo De Benedetti si presentò da Di Pietro e mise
a verbale: “Sì, anche Olivetti ha pagato tangenti”.
Dopo la deposizione, l’ingegnere dichiarò: “Ho provato un grande senso di liberazione. Negli ultimi
anni le pressioni dei partiti hanno avuto un crescendo impressionante. Nel 1987 vendevamo alle Poste
materiale per soli due miliardi. Dopo aver pagato, nel 1988 le vendite salirono a 200 miliardi”.
Fino ad allora De Benedetti aveva mentito, negando l’evidenza anche all’assemblea degli azionisti.
Il commento di Romiti al gesto liberatorio di De Bendetti nell’ufficio di Di Pietro fu questo: “Se De
Benedetti ha detto quello che ha detto è perché ha ricevuto pressioni e vessazioni. Io non le ho mai
ricevute. Quanto ai manager delle aziende del nostro gruppo, certo che dovevano venire a dirmelo.
Ma, se lo avessero fatto, io avrei bloccato tutte le operazioni sospette e loro avrebbero visto sfumare
l’affare.
Da un anno e mezzo Romiti non si è spostato da quella linea. L’uomo forte del grande capitalismo
italiano non sapeva, non intuiva. Pur espertissimo di politica romana, era alieno dal cogliere i suoi
vizi e i suoi costi. Non solo: intimidiva a tal punto i suoi poveri manager che costoro, temendo il
rimbrotto e l’insuccesso, aprivano conti in Svizzera per onorare le tangenti con la sola accortezza che
Romiti non se ne accorgesse.
Se Berlusconi, secondo i magistrati, “non poteva non sapere” delle tangenti della Fininvest, come
potrebbe Romiti ignorare quelle della Fiat spa, la holding del gruppo? Diciamoci tutta la verità, ma
proprio tutta: già agli italiani risulta difficile capire come Agnelli e Berlusconi, sempre informatissimi
anche sullo stato delle caviglie di Vialli o di Baggio, rivelino una disinformazione totale sulla gestione
dei loro imperi industriali. Con Romiti, amministratore delegato, la circostanza risulta ancora più
curiosa.
Certo, è possibilissimo che le “prove storiche” manchino, che Romiti vada incontro a una
archiviazione e Berlusconi a un’assoluzione. Ma la vera sentenza resta un’altra: non esiste un solo
italiano, e- si badi – un solo imprenditore, che ritenga Fiat, Fininvest, Olivetti o soltanto concusse o
vittime dei loro zelanti manager.
Per paura di buttar via il bambino con l’acqua sporca della Prima Repubblica, ci teniamo quell’acqua
e il bambino sudicio. Non riusciremo mai a rifondare l’Italia dentro questa grande ipocrisia di fondo:
come se l’etica del capitalismo e della politica dipendesse dalle “prove storiche” in mano a un pm.
Sull’ipocrisia del “non sapevo” fallirà qualunque nuovo ceto dirigente. Senza verità, nuda e cruda,
faremo poca strada: peggio, torneremo indietro.