1994 agosto 14 Un patto infedele
1994 agosto 14 – Un patto infedele
Nella memoria dei risparmiatori c’è una collezione di “venerdì neri”. Ma gli italiani alla fine ne sono
sempre usciti perché la tenacia supera la sfiducia.
Un tipetto di carattere, il dottor Goebbels, usava la fiducia come arma di propaganda. Pensava che le
battaglie si vincessero con i microfoni della radio prima che con i panzer.
Per fortuna nostra, l’economia di mercato è un po’ più seria e chiede un altro tipo di fiducia. Molto
più arida, terra terra, che poggia sulle “misure” prese da un governo.
Il  parco-buoi  del  mercato  è  isterico  quanto  gelida  l’alta  finanza.  Il  primo  si  stressa  anche  per  un
pettegolezzo,  la  seconda  ha  la  savana  sullo  stomaco  e  sfrutta  anche  la  paura  di  massa  pur  di
guadagnarci un penny.
La finanza va dove annusa guadagni. E’apolide, come se battesse bandiera panamense o liberiana,
specula su chi le offre buoni pretesti. Piangere sui complotti è patetico: il grande affarismo ha sempre
complottato per il profitto di giornata. Non ci sarebbero avvoltoi senza carogne da spolpare.
Una decina di anni fa uscì in America un bel saggio sull’arte dell’inganno, dedicato – guarda caso –
al nostro beneamato Nicolò Macchiavelli. Siccome disconosce le regole del gioco, l’inganno veniva
definito sovversivo.
Accade da noi, ora, dove nessuno rispetta l’abc. Il linguaggio vince sulla realtà, inganna e dunque la
sovverte: nel momento in cui, mai come oggi, dovremmo affrontare fino al collo della concretezza,
sembriamo tutti sollevati di una spanna da terra. Burattini e virtuali.
Il governo ha l’ossessione di comunicare, l’opposizione di s-comunicare. Berlusconi legge troppo i
giornali  e  troppo  poco  le  relazioni  sui  conti  pubblici;  l’opposizione,  ancora  digiuna  di  cultura
dell’alternativa, continua a lavorare inerzialmente “contro”. Ingannano e si autoingannano.
Berlusconi  lamenta  che  non  lo  lasciano  governare,  quando  invece  i  ritardi  sono  tutti  suoi.  Le
opposizioni giurano che Berlusconi ha il diritto-dovere di governare ma, dopo appena 1000 giorni,
sognano già la sua caduta.
Governo di “dilettanti”, anzi di “esordienti”? Ma non facciamo teatro.
Berlusconi  conosce  riti  e  stanze  del  potere  da  una  vita.  Letta  ha  imparato  ad  abitarci  da  quando
succhiava il biberon. La politica Ferrara ce l’aveva addirittura in famiglia e già cinque anni fa era
eurodeputato.
Fini  e  Casini  sarebbero  neofiti?  Mastella  per  caso,  e  Fiori?  Al  governo  o  nella  maggioranza,
l’esperienza supera l’apprendistato. Gli stessi Dini, Tremonti eccetera praticano da una vita i segreti
di Bankitalia o del Fisco.
Il dilettantismo non deve funzionare né da stroncatura né da alibi. Che ciascuno risponda da subito
come promesso: Per anni e mesi hanno sparato a zero sull’incapacità e l’immobilismo del vecchio
ceto  politico.  Dimostrino  di  essere  efficienti  e  dinamici  almeno  loro,  dando  finalmente  corpo  al
nuovo.
Non si può dar torto a Casini se denuncia il deficit di cultura di governo: il fatto è che, nelle fasi di
transizione, bisogna inventarsela alla svelta.  Il  talento  o ce l’hai  pronti e  via o te lo  puoi  scordare
quando un Paese accelera la propria storia.
La  Pivetti  insegna.  Dopo  essere  stata  trattata  all’inizio  come  una  sventatella  senza  arte  né  parte,
immatura e inaffidabile, ha dimostrato che il lavoro, lo studio, il temperamento e il senso dello Stato
suscitano competenze insospettabili.
In un Paese che vede riunirsi d’urgenza, ad agosto 1994, i sindaci dell’Irpinia perché la ricostruzione
delle zone terremotate nel 1980 è tutt’altro che conclusa, qualsiasi governo ha l’occasione di costruirsi
a buon mercato un monumento di benemerenza. Questa è la verità. Perché il peggio del peggio sta
alle spalle, ma soprattutto perché gli italiani sanno benissimo a chi attribuire la paternità di decenni
di incuria dello Stato. 
Tra Berlusconi e Bossi serve un patto. Ma apertamente infedele, non ipocritamente sottobraccio, per
incantare i merli.
Quei due rappresentano davvero storie, sensibilità, elettorato, spinte, interessi diversi, nonostante il
populismo  che  li  apparenta  per  caso.  Perché  funzioni  sul  serio,  stilino  un  accordo  a  separazione
differita,  che  contempli  una  sola  causa  da  onorare  da  oggi:  l’interesse  del  Paese,  con  la  priorità
all’economia e con l’intesa sul federalismo. Punto e basta.
Non  esiste  una  sola  borghesia  in  Italia.  Uno  sterminato  ceto  medio  ne  prevede  più  d’una  con
scompensi  economici  che  il  tempo  lascia  inalterati,  come  dimostrano  gli  ultimi  studi  dell’Unione
delle Camere di Commercio.  Il  reddito prodotto da tutte le regioni del Sud messe assieme resta al
esempio di 30 punti sotto la media nazionale, né più né meno di quindici anni fa.
Il consenso si sta spappolando e ricomponendo, a caccia di riferimenti e soprattutto di risposte. Un
caos creativo, un passaggio da vivere tutto anche se costa fasi di smarrimento e di rigetto. Bossi è il
simbolo  in  carne  ed  ossa  del  passaggio  dal  politichese  all’alternativa,  per  ora  scamiciata,  ma
ineluttabile.
Che  l’alternativa  cresca  nella  placenta  del  governo  è  un’anomalia  soltanto  apparente.  Segno  che
alternativa l’opposizione classica ancora non è: e Bossi, sfortunatamente per Berlusconi, lo sa.