1993 luglio 5 Addio soldati di pace

1993 luglio 5 – Addio, soldati di pace

Lo ha detto anche il Papa. Siamo in Somalia per “ristabilire la pace”.

“Ristabilire” è un verbo tutt’altro che inerme. Esprime iniziativa, determinazione, forza. Ristabilire
la pace con mezzi pacifici configura un ideale.

L’ideale così come lo concepiva Tolstoj: se solo potessimo immaginare di poterlo realizzare, non
sarebbe più un ideale. L’ideale spinge gli uomini a uno sforzo infinito proprio perché infinita resta
la sua distanza, si sposta di continuo dinanzi a noi.

Non di rado le missioni di pace presentano pericoli superiori a quelle di guerra, dato che si svolgono
contro un nemico non dichiarato. Anzi, senza un nemico, nella presunzione che tutti siano avversari
da riconciliare. Le missioni di pace sono vittime di agguati, non di scontri. Eccedendo in fermezza,
si tracima nella violenza; offrendo l’altra guancia, si fomenta l’anarchia. Quel tipo di pacificazione
cammina su un filo molto sottile. L’Onu è sembra ambigua. Perché il mondo sa tutto della guerra,
niente ancora della pace. La guerra è la sua legge naturale, la pace una cultura tutta da inventare.
Viviamo la rottura della storia. Che fino a ieri preparava l’olocausto nucleare e che, all’improvviso,
aspira a governare anche i tanti Paesi divisi in bande. Dalla mattina alla sera, l’ordine mondiale si
gioca non più in una sola astratta guerra stellare ma nei mille mattatoi del mondo.

Non siamo preparati. Non sappiamo da che parte cominciare. Critichiamo gli Stati Uniti, pur
sapendo che senza gli americani non esiste Onu. C’è chi vorrebbe tornare a casa dalla Somalia, chi
partire per la Bosnia, cento volte peggio di Mogadiscio.

La retorica segna l’eclisse totale del realismo, che non è cinismo, aridità, grettezza; molto più
semplicemente, la constatazione che gli Stati come gli uomini, sullo scacchiere internazionale come
nella vita di tutti i giorni, avranno sempre prezzi da pagare. Soprattutto nel conflitto tra gli ideali di
razionalità e i mostri dell’istinto.

I nostri tre soldati caduti in Somalia non sono “eroi involontari” come da celebrazione. Né eroi né
involontari; invece, uomini seri, preparati, capaci, che avevano scelto un lavoro e lo svolgevano al
meglio. Il sottotenente Millevoi guidava il carro armato meglio di un’utilitaria; il paracadutista
Baccaro era partito volontario per guadagnare qualche lira; il sergente maggiore Paolicchi era un
incursore molto esperto, che aveva già sperimentato Beirut, l’Iraq, il Curdistan.

Uomini e professionisti, né eroi né involontari. Gente preparata, consapevole che anche in missione
di pace si può morire di guerra. In questo nostro Paese carico di complessi di colpa, dobbiamo una
buona volta decidere se essere fieri di loro o già pentiti del loro destino “umanitario”.