1993 luglio 19 Borsellino, ricordare per costruire

1993 luglio 19 – Borsellino, ricordare per costruire

Giusto, meglio guardare avanti, uscire dalla palude, realizzare la grande trasfusione della politica.
Meglio inventare che recriminare, spendere speranza che risparmiarla. Meglio lavorare con
accanimento per la ricostruzione che contemplare il disastro.

La ragione supera i sensi, ammoniva Sant’Agostino, osservando che agli occhi il remo pare
spezzato a pelo d’acqua. Questa Italia in apparenza rotta, è in realtà tutta intera, in grado di
spingersi oltre. Oltre la decadenza dello Stato e la fine del regime.

Giusto. Ma la memoria è sacrosanta, non possiamo ancora consentirci il lusso di dimenticare. Certi
ricordi sono un’arma di vita; non uccidono, perpetuano il senso delle cose. Sono sangue caldo.

Come Paolo Borsellino. Come Giovanni Falcone, come Chinnici. Come Livatino. Tutti siciliani,
custodi dello stato di diritto.

Lo confessiamo senza titubanza: esattamente come quel giorno, una rabbia sorda e cattive prevale
tutt’ora sulla pietà. Non c’è perdono che tenga, non c’è archivio che possa seppellire la lunga
sequela di disonore, di insensatezza, di viltà, di ottusità e di pochezza che accompagnò il lavoro dei
magistrati del pool di Palermo.

Non si dimentichi che, con un articolo sui presunti “professionisti dell’antimafia”, lo scrittore
Leonardo Sciascia offrì il suggello della cultura ai veleni che minavano il lavoro dei giudici.

Non si dimentichi che il Consiglio superiore della magistratura lasciò smantellare tutto quanto c’era
da smantellare delle inchieste del pool. Il 18 gennaio 1988 e il 30 luglio dello stesso anno, il Csm
colpì alla schiena prima Falcone, poi Borsellino, umiliandoli come uomini prima che come
magistrati. Paradossalmente, uccidendoli, la mafia dimostrò poi di stimarli più del loro organo di
autodisciplina.

Non si dimentichi che la lotta alla mafia applica oggi integralmente la filosofia del pool di Palermo,
ma è anche figlia dell’opinione pubblica che riuscì finalmente a imporre il rimorso come ragione di
Stato.

Non si dimentichi che nessuno ha mai pagato per quella aggressione togata.

Non si dimentichi che, in questo Paese di mafia e di tangenti, i bersagli non cambiano mai. Ieri
Falcone e Borsellino, oggi Di Pietro.

Che l’Italia conservi una memoria da elefante. Che il passato ci serva, ma soltanto per costruire il
suo contrario.