1992 marzo 30 La lezione di Moro

1992 marzo 30 – La lezione di Moro

A Trieste Arnaldo Forlani ha detto: “Se la Dc avesse anche il solo merito di aver risparmiato il
comunismo all’Italia, meriterebbe di essere votata per cento anni!”.
Non è una battuta da liquidare nel calderone della propaganda. Contiene tanta verità storica: anzi,
esattamente lì nasce la democrazia in Italia. Il 1948 segnò la scelta occidentale.
Si potrebbe aggiungere qualche elemento, il peso della Chiesa, di Pio XII, delle organizzazioni
cattoliche così penetranti e popolari nella società italiana. In più, il sostegno degli americani,
l’intuizione socialdemocratica di Saragat e una cultura liberal-borghese refrattaria al marxismo. Il
tutto favorito dal suicidio del socialismo nenniano del “Fronte” dominato dai comunisti.
Ma nemmeno questo quadro sminuisce le benemerenze storiche della Dc di Alcide De Gasperi. Che
non a caso l’Europa considera tuttora uno dei suoi padri fondatori.
Ciò che diventa arbitrario nella teoria del “cento anni” di Forlani, è la concezione della politica come
eterna gratitudine, il congelamento della Storia, la impenetrabilità al futuro. Come dire: giudicate il
nostro partito per il passato non per il presente; se non vi piace quello di oggi, ricordate quello di ieri.
Forse, Forlani non si accorge di fare l’elogio dell’immobilismo, proprio quando la Dc lancia l’estremo
appello come partito nonostante tutto disposto alle riforme. Evocare il 1948 è una prova di debolezza,
non di forza; esalta il conservatorismo dei gattopardi del potere, non la spinta al rinnovamento della
politica.
Nel 1975, pochi mesi dopo le elezioni, nel pieno di una grave crisi economica e politica, Aldo Moro
affermò l consiglio nazionale della Dc: “Il Governo non intende vivere di rendita semplicemente sulla
difficoltà che si riscontra nel sostituirlo. A tutti i partiti a viso aperto, si chiede, non già che rinunzino
alle proprie idee e funzioni, ma solo che esprimano le une ed esercitino le altre nella consapevolezza
della fragilità, più che del governo, del Paese, aperto a qualsiasi temibile prospettiva. Ai cittadini si
chiede di tener conto dello Stato in cui si compie una sintesi di interessi e valori, nella quale, in
democrazia, tutti possono riconoscersi”.
Tre anni dopo Moro fu massacrato anche perché, con pericolosa lucidità, si appellava al “non vivere
di rendita” dei governi, alla “consapevolezza” dei partiti, alla “sintesi” dei cittadini nello Stato.
Le date sono spesso più eloquenti di mille analisi. Nel quarto anniversario del suo assassinio, una
delle teste più pensanti della Dc, Roberto Ruffilli, ribadì la laicità di Moro di fronte alla tumultuosa
evoluzione del nostro Paese e in genere del mondo contemporaneo. Nel senso che, come per Norberto
Bobbio, secondo Moro la politica doveva procedere per “fasi”, fuori dalla prigione delle ideologie e
degli schemi fissi.
Sempre Ruffilli ricordò in quell’occasione che Moro era preoccupato delle sorti più della democrazia
italiana che della democrazia cristiana. Con un unico punto fermo: “Nel medio-lungo periodo
l’avvento di una democrazia dell’alternanza”.
Era l’aprile del 1982. Sei anni dopo, Roberto Ruffilli fu trucidato dalle brigate rosse come Aldo Moro.
Chi aveva elaborato o sviluppato idee di cambiamento, pagava con una terribile fine.
Anche questa storia politicamente incompiuta deve ricordare la Dc. Non soltanto il 1948.