1990 novembre 11 Il primo teste

1990 novembre 11 – Il primo teste
L’intreccio fra istituzioni, leggi e procedure il più delle volte depone nei cittadini un senso di labirintica
estraneità. Soprattutto in Italia dove si tramuta in certezza il sospetto che il cavillo giuridico serva al
crimine, che la burocrazia faccia da paravento ad ogni abuso di potere, che in nome dello Stato si lavori
per inquinarlo. Ciò nonostante bisogna fare resistenza civile e non mollare su alcuni punti di
riferimento. La Costituzione dà vita a un Paese, non è un fossile, va sempre intesa come materia calda;
i Codici rendono possibile una società, non sono muffe per rituali e parrucche; gli stessi formalismi
nascondono più spesso di quanto non si creda garanzie di corretto funzionamento dei poteri. Le regole
fondano una democrazia, anche quando ci si pone al loro limite sul delicatissimo terreno della
discrezionalità o dell’interpretazione. Come può accadere nel caso di un magistrato che inopinatamente
chiama a testimoniare il capo dello Stato, che presiede oltretutto il consiglio superiore della
Magistratura. Eppure in questa fase della vita italiana si rafforza un’esigenza che prevale sulle
distinzioni dei giuristi, sullo scrupolo del guardasigilli, sui conflitti di competenza, sulla parzialità delle
norme: il bisogno di conoscere. Oggi il bene più prezioso e duro a farsi strada in Italia è molto
semplicemente l’informazione. Proprio la notizia, il riscontro, l’accertamento. Di interpretazioni ne
abbiamo fin troppe, di strumentalizzazioni scoppiamo, manchiamo di fiducia perché sappiamo poco e
tardi, e quel poco che sappiamo deve farsi strada dentro una nube di opinioni camuffate da notizie. La
nostra democrazia è ancora incapace di comunicare. Se le cose stanno così, Cossiga avrebbe
un’occasione d’oro. Lasciar perdere il Governo, la Corte Costituzionale, il ministro della Giustizia, la
prassi e i precedenti, le piccole prudenze e le grandi viltà degli apparati; proprio lui che del Diritto è un
raffinato cultore infischiarsene per una volta e trasmettere al giudice di Venezia la sua disponibilità a
deporre quale testimone. Meglio ancora se non è tenuto a farlo. Rafforzerebbe non tanto Cossiga
quanto il Quirinale; darebbe una picconata alla Repubblica delle reticenze; svelerebbe un volto nuovo
del potere. Nessuno, nemmeno il giudice Casson può attendersi sensazionali rivelazioni dal capo dello
Stato il quale, sabato 27 ottobre in visita a Edimburgo, già ammise: «È assolutamente vero che come
sottosegretario alla Difesa ho concorso in via amministrativa alla formazione degli atti: al richiamo in
servizio temporaneo del personale militare inviato all’addestramento per questa struttura Nato». La
posta in palio a noi sembra persino più rilevante dello stesso chiarimento sulle funzioni o sulle
invadenze di «Gladio»: il sì di Cossiga a testimoniare quanto sa segnerebbe una svolta nel tentativo di
ricostruire una credibilità di Stato oggi a pezzi. Con una battuta, Giuliano Ferrara sostiene che a questo
punto le notizie sono due. Per la prima, Gladio è il Grande Vecchio individuato dai comunisti; per la
seconda, Gladio è un Ferro Vecchio della guerra fredda. Noi cerchiamo la terza notizia, né da liquidare
come un qualsiasi lascito della Storia né da manipolare come surrogato del proprio fallimento.
Stritolata tra banalizzazione e speculazione, la terza notizia ricerca soltanto i fatti, la concatenazione, le
impronte, anche una trama – se trama esiste – verificata dalla magistratura e dal parlamento in nome
della conoscenza e di null’altro. Svuotati gli arsenali, restano da svuotare gli armadi, frutto a Est come
a Ovest di un mondo per 40 anni con il colpo in canna. Operazione particolarmente drammatica in
Italia dove si sono confusi troppe volte i confini tra segreto e strage, Stato e cospirazione, sicurezza e
deviazioni. Cossiga potrebbe diventare il primo teste del cambiamento.
11 novembre 1990